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Il ciclone: la Spagna è la regina dello sport, con un modello nato dai Giochi del ’92

Wimbledon e l’Europeo in 7 ore: un trionfo nato da un progetto che ha fatto crescere in statura la popolazione, e regalato una struttura per i futuri campioni a partire dalla scuola

Salute pubblica. E democrazia. Ma soprattutto istruzione e cultura. Se la Spagna è quel luogo in cui si può vincere il torneo di Wimbledon a metà pomeriggio e l’Europeo di calcio la sera dello stesso giorno, le ragioni sono lontane e profonde. Cause nobili e alte, diciamo 9 centimetri: ovvero l’aumento medio di statura della popolazione maschile spagnola dal 1940 a oggi, 3 centimetri più della crescita media in Europa. E anche le donne non scherzano: più 7 centimetri. Ma il cambiamento epocale ha una data più recente, il 1978, anno in cui finì la dittatura franchista. Da allora, bambini e ragazzi spagnoli si sono nutriti meglio, sono stati curati dal sistema sanitario nazionale e hanno studiato in scuole dove lo sport viene visto come essenziale alla salute delle persone. E un popolo che sta meglio ed è più sano, può diventa anche una miniera di campioni.

Lo sport materia scolastica obbligatoria

La cultura sportiva non è un concetto astratto, né uno slogan: dove esiste davvero, la società dispone di un enorme potenziale di energia e risorse. Anche nell’agonismo, che pure non è il primo obiettivo del “sistema Spagna”, dove quasi tutte le scuole sono pubbliche e i ragazzini non devono pagare per giocare a calcio o a pallavolo, per nuotare o tirare di scherma. Lo sport è materia scolastica obbligatoria già nei “colegios infantiles”, l’equivalente della nostra scuola dell’infanzia dai 3 ai 6 anni, anche se si chiama psicomotricità. Non stupisce che la percentuale di obesità giovanile sia, in Spagna, decisamente inferiore alla media continentale, Italia compresa. Lo sport è materia scolastica obbligatoria in ogni ordine e grado di studi, non certo la nostra oretta di ginnastica cenerentola. Per avere l’esonero occorrono ragioni serie e documentate. Altrimenti, testa bassa e pedalare.

Le quattro medaglie di Seul 1988

Nel 1988 a Seul, gli spagnoli portarono a casa la miseria di quattro medaglie. Appena due anni prima, il governo e il comitato olimpico avevano varato il programma ADO, acronimo di Asociacion Deportes Olimpicos. Un progetto intensivo, finanziato dalle imprese, anche quelle molto grandi come Danone e Caixa (parzialmente detassate, in cambio), basato sulla creazione e sul rafforzamento delle accademie sportive, con l’investimento di migliaia di borse di studio in base ai risultati e all’impegno, incrociando sempre aule e campi d’allenamento. Agli atleti vennero messi a disposizione, oltre ai premi per le vittorie (inizialmente, 50 milioni di pesetas a medaglia olimpica), supporti tecnici, strutture, materiali e rimborsi per le trasferte, togliendo alle famiglie l’obbligo di quel volontariato che, se c’è, è gradito, ma se manca non può far crollare l’intero sistema. Il programma ADO funzionò subito benissimo: ai Giochi del 1992, anno fondativo non soltanto perché si svolsero a Barcellona, città totalmente ridisegnata dalle Olimpiadi (si pensi soltanto all’area del porto), gli atleti spagnoli vinsero ben 22 medaglie, 13 delle quali d’oro, compreso il calcio con Guardiola capitano. La Spagna si stava avviando a diventare una potenza mondiale: anno d’oro, il 2008 dei trionfi in serie. Calcio, tennis. E nel tempo gli spagnoli sono diventati formidabili un po’ ovunque, dai motori all’hockey a rotelle, dalla pallanuoto al badminton, passando naturalmente per basket e ciclismo. Ogni città ha un club di tennis spesso gestito da ex campioni, come i fratelli Sanchez o Nadal.

I valori della Masia del Barcellona

L’idea che il talento si educa, si asseconda, si accompagna e si accudisce, non pensando esclusivamente a chili e watt espressi, è la religione dello sport spagnolo, in particolare delle canteras, scuole di sport dove i campioni vengono prodotti quasi per gemmazione. La Masia del Barcellona non è stata soltanto la “fabbrica” di Messi, Xavi e Iniesta, ma un consesso umano dove la crescita comune attraversa un piano valoriale senza la retorica della mens sana in corpore sano, anche se il rischio della sindrome dei polli d’allevamento è sempre in agguato. L’imprinting tattico feroce non elide l’estro. Muscoli e schemi al servizio di tecnica e fantasia, non viceversa.

L’ombra del dottor Fuentes

C’è un’ombra grande, certamente: quella del doping. L’Operacion Puerto (2006), tesa a inchiodare il dottor Eufemiano Fuentes, uno tra i più clamorosi dopatori al mondo tra ormoni della crescita, Epo e anabolizzanti, non può essere considerata come elemento ai margini del discorso. E molti dubbi restano.

Le polisportive e gli sponsor

Un altro cardine del sistema spagnolo sono le polisportive, senza troppe gerarchie tra le varie discipline, vestendo la medesima divisa. Un ragazzo del Barcellona o del Real Madrid può giocare a calcio ma anche a basket, e non si sente uno sfigato quando capisce che non diventerà mai Lamine Yamal. Uno dei più grandi cestisti della storia è spagnolo, e si chiama Paul Gasol. E i più meritevoli, anche all’interno di accademie e club privati non pagano nulla. Gli sponsor, forse, sono più illuminati che da noi: se il motociclismo è diventato un regno dove non tramontava mai il sole, il merito non è soltanto di fuoriclasse come Marquez e Lorenzo, ma anche di aziende come Santander, Repsol e Telefonica.

Le scuole degli allenatori

Il boom spagnolo di economia e turismo ha certamente favorito la collezione di trionfi, ma non sarebbe accaduto se i dirigenti sportivi non avessero capito che, per prima cosa, bisogna allenare gli allenatori. E forse in nessun luogo al mondo esistono scuole per tecnici di simile livello. È il segreto dei maestri dello sport, dei veri educatori, a cominciare dai bambini piccolissimi: tutti gli Yamal in fasce, anche senza la benedizione di quel famoso bagnetto con Messi.

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