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Una vita da Frey: “Volevo diventare una bandiera viola come Antognoni”

L’ex portiere viola si racconta nel libro Istinto puro. “I successi, gli anni in Champions con Prandelli, Baggio e il buddismo, ma anche gli infortuni e quel virus che ha rischiato di uccidermi”

Un bambino e il suo sogno, un uomo e i suoi tormenti. È un viaggio intimo e introspettivo quello che Sebastien Frey fa sulle pagine di Istinto puro, la sua biografia (con Federico Calabrese, edizioni Minerva, 20 euro, dall’11 settembre in libreria). Anzi, più che una biografia è una sorta di quaderno dove l’uomo più del portiere ha preso appunti sulla sua vita. Quasi a voler mettere in ordine le cose. Quelle belle, certo, ma anche quelle brutte. Perché è proprio lì, nelle difficoltà, che esce fuori un Frey lontano dallo stereotipo del calciatore e che non ha paura, né vergogna, a mostrarsi fragile e vulnerabile come qualunque altra persona. Il figlio, il padre, il marito. Oltre il talento e le sfide vinte giocando a pallone. Una vita senza guanti, parata stringendo i denti. Never give up, non mollare mai, è questo il suo motto. «Ho preso a morsi la vita – dice Frey – Sono cresciuto con poco, sono caduto però mi sono sempre rialzato».

Una vita fatta di incontri, arrotolata intorno al calcio, che sebbene occupi buona parte del libro appare quasi sfumato. Un sottofondo necessario e inevitabile per raccontare la storia di un grande portiere, però è più che altro il resto che voleva tirare fuori. Anche se a volte i passaggi risultano accelerati, quasi a voler superare il dolore. Il primo grave infortunio, la separazione dalla prima moglie, il rischio di morire a causa di un virus. Schegge di memoria incastrate nei successi del Frey giocatore. È la sua carriera a fare da filo conduttore del libro, dalle prime partite nel parcheggio dietro casa ai successi.

Il piccolo Sebastien è stato un bambino felice, anche se non aveva niente. I suoi genitori lavoravano però la sua famiglia faceva fatica ad arrivare a fine mese e il Natale era senza giocattoli. Ma c’era il calcio ad unirli. Suo nonno e suo padre erano stati dei buoni giocatori arrivati fino alla Serie B francese. Il nonno aveva anche giocato in Nazionale. La prima svolta a dieci anni, quando arrivò al Cannes. La seconda qualche anno dopo, nel 1998, l’anno del passaggio all’Inter. Un po’ di tempo prima aveva detto di no alla Juve, «che nel contratto aveva inserito come bonus anche una Fiat Barchetta», ma la squadra di Moratti gli sembrò la scelta più giusta per l’ingresso nel grande calcio. Da lì in poi le pagine del libro scivolano via tra vittorie e sconfitte, tra amici veri («Ne ho avuti tanti») e aneddoti. Come quella volta che «in un allenamento con l’Inter mi bloccai la schiena e andai nello spogliatoio per farmi curare. Poi arrivò Paulo Sousa, i lettini erano tutti occupati e lui mi fece scendere dal mio. Avevo un dolore fortissimo, però mi costrinse a sedermi su una sedia».

Vecchie storie che oggi racconta con il sorriso, ma a quei tempi il giovane Frey aveva un carattere un po’ irrequieto. E allora sfogli e ricordi. La prima partita da titolare in Serie A contro la Fiorentina, quasi un segno del destino, il motorino che vola giù dalla curva di San Siro lanciato dai tifosi, l’incontro non felicissimo con Prandelli a Verona («Le prime due settimane non mi ha parlato, solo buongiorno per educazione»), il rapporto con il preparatore Di Palma («Ma poi anche lui mi ha tradito»), l’arrivo a Parma, dove ritrova Prandelli, il rapporto difficile con Silvio Baldini («Faceva freddo e una volta ci fece andare in campo a petto nudo per punirci»), il crac Parmalat e la vita che si incrocia con la storia. L’incontro con Alessandro, un bambino malato «che ho frequentato quasi tutti i giorni fino alla fine. Con i suoi genitori ho un legame speciale».

E finalmente Firenze. «Fu il figlio di Diego Della Valle a chiudere il contratto – racconta Frey – Aveva cinque anni e disse al padre: in porta voglio solo Frey. Era un bel progetto, ero entusiasta e per venire alla Fiorentina rinunciai a un milione di ingaggio». La storia viola di quegli anni la conosciamo bene, ma nella vita di Frey entrò a gamba tesa il destino (e non solo il destino). Coppa Italia, la Juve sta vincendo 4-1 a Torino, manca poco alla fine della partita, il portiere viola esce con i piedi e arriva prima sul pallone ma Zalayeta invece di saltarlo (quando parla di lui Frey perde un po’ la sua tranquillità…) arriva duro sulla gamba. Lì per lì non sembra grave, ma la diagnosi è devastante: il ginocchio è distrutto, la carriera è a rischio.

«Mi crollò il mondo addosso. Avevo solo 25 anni e quell’infortunio rischiava di compromettere tutto». Vari consulti, poi la decisione di farsi operare a Strasburgo. Un intervento difficile e lunghissimo. «Rimasi quattro ore in sala operatoria, per ricostruire il ginocchio mi dovettero staccare la rotula e riattaccarla». Quando si svegliò era legato al letto. Il dolore fortissimo. Lo chiamarono in tanti, ma non Zalayeta. La Fiorentina nonostante l’infortunio riscattò il suo cartellino, ma Frey entrò in un cono d’ombra da cui l’hanno aiutato ad uscire Roberto Baggio e il buddismo.

Il ritorno fu lungo e faticoso («Un’altra caduta da cui mi sono rialzato»), e poi sulla Fiorentina arrivò Calciopoli. La penalizzazione, un’altra rinascita, questa volta sportiva, le ombre su Montolivo, che chiese alla società di togliere la fascia di capitano a Frey, l’amicizia con Mutu e Toni («Quando Luca tornò dal Mondiale aveva una cintura che si illuminava, era bruttissima») e quella con Lupatelli e Avramov. Una vita a mille, di nuovo. Un po’ meno spericolata («Soprattutto nelle uscite») ma sempre da protagonista. Poi la Champions, la vittoria di Anfield, la follia dell’arbitro Ovrebo contro il Bayern Monaco, la sconfitta in semifinale con i Glasgow Rangers e mezza Europa che si era messa in fila per lui davanti all’ufficio di Branchini, il suo procuratore. «Con Giovanni fui molto chiaro, dalla Fiorentina non me ne vado. Alla fortuna devi andare incontro e io sentivo che a Firenze avevo saldato il conto».

Eppure c’era un’altra curva pericolosa nella sua vita, ma ancora non lo sapeva. In allenamento, prima di Fiorentina-Chievo, si ruppe il crociato anteriore. E più o meno nello stesso periodo la moglie se ne andò di casa con i figli e si trasferì a Forte dei Marmi. Fu un ceffone violento. «Per superare quel momento andai in terapia». La sua vita stava andando in pezzi. In più Corvino proprio non ne voleva sapere di quel portiere così talentuoso e forse un po’ ingombrante. «Mentro eravamo in ritiro mi arrivò un fax, aveva chiesto alla Lega una multa di 99 mila euro perché diceva che ero arrivato in ritiro sovrappeso». Provò ad avvertire i Della Valle di non fidarsi di Corvino, ma la risposta fu secca: «Ne prendiamo atto». Parlò con Mihajlovic: «Non puoi farti dire dalla società chi deve giocare».

Niente, era finita. «Ho amato Firenze fin dal primo giorno in cui sono arrivato, la sentivo casa mia. Ho sempre pensato che avrei chiuso a Firenze la mia carriera, sognavo di diventare una bandiera come Antognoni. Invece…».

Invece addio Italia. Davanti a un bianco di Borgogna Frey decide di accettare l’offerta del Bursaspor e vola in Turchia. Esperienza devastante conclusa con una causa economica. Capisce che è arrivato il momento di ritirarsi. Lascia il calcio e va a vivere a Nizza. E il 14 luglio del 2016, la notte della strage, doveva esserci anche lui sulla promenade Des Anglais per vedere i fuochi d’artificio, ma il suo aereo fece ritardo e rimase a casa. «Quel giorno mi ha segnato per sempre».

Già, e poi? E poi qualche anno dopo, nel 2019, una mattina si sveglia e riesce a muovere solo la testa. Paralizzato. Impaurito. Petra, la sua compagna, lo porta in ospedale. I medici non capiscono cosa abbia. Meningite? Forse. Una malattia auto-immune? Può darsi. Alla fine la diagnosi: si tratta di un virus che può essere mortale. Un mese di cure e angoscia, la depressione. Frey va perfino dal notaio a fare testamento, poi l’ennesima, lenta, ripartenza. «Ho iniziato a sconfiggere il virus quando ho detto a me stesso che potevo farcela». E tutto è finito bene. Si è sposato con Petra, da cui ha avuto due bambini, e ha recuperato il rapporto con gli altri suoi due figli. E questo libro, più che l’arrivo a Firenze, ha saldato il conto. Never give up.

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