Ci sono settimane in cui il calcio ricorda la sceneggiatura di una serie tv kolossal — il Trono di Spade è l’esempio più ovvio, ma Lost non si dimentica — con centinaia di personaggi, ognuno con la sua anima irripetibile, e un’infinita quantità di incroci fra loro. A volte sono le settimane in cui un lutto interrompe il dipanarsi di questa commedia umana, e la riavvolge costringendoci a fare i conti con i ricordi: di quando eravamo ragazzi con Salvatore Schillaci, lo aspettavamo dopo le partite nel garage dell’Olimpico, ed era tale la meraviglia per quanto stava succedendo che più di “cosa provi?” non si riusciva a chiedergli, e meno di “sto sognando, non svegliatemi” comunque non si otteneva. Erano giorni in cui si parlava molto di partenza dal basso, intendendo una cosa diversa da oggi: la furia con la quale Totò rimontava un’infanzia assai umile, e a suon di gol impersonava quel che eravamo abituati a chiamare sogno americano — l’underdog che raggiunge il successo — e invece era la storia più allegra di un’estate italiana. Pochi decisivi dettagli impedirono a Schillaci e all’Italia di Vicini di arrivare al titolo mondiale, ma ciò non toglie che Totò realizzò l’ambizione di ogni esistenza: dare il meglio — lui andò persino oltre — nell’occasione più importante della vita.
Liedholm e il rispetto per i campioni del mondo
È stata una settimana in cui ci è tornato in mente Nils Liedholm, a proposito di campionati del mondo. Anche il Barone sfiorò soltanto il titolo (perse con la Svezia la finale del 1958, l’alba di Pelé), e forse proprio per questo crebbe in lui un’ammirazione sconfinata per quanti invece riuscivano a raggiungerlo: quelli dell’82 li acquistò sempre, al secondo giro nella Roma (Vierchowod e Graziani), al secondo giro nel Milan (Rossi, Massaro e Galli), persino al terzo giro nella Roma (Collovati e ancora Massaro).
Florian Thauvin, scampato all’oblio calcistico
La differenza che Liedholm vedeva in chi aveva salito l’ultimo gradino ci è stata chiara lunedì sera, quando la freddezza di Florian Thauvin — la girata del 3-2 al Parma era meno scontata di quanto sembrasse — ha portato l’Udinese in testa alla classifica. Thauvin è uno dei dieci campioni del mondo della Serie A, e un paio sono pure sub judice perché non sappiamo cosa sarà di Pogba alla Juve e di Varane al Como. Gli altri, per la cronaca: Lautaro, Dybala, Paredes, Pavard, Hummels, Pedro e Reina. Thauvin è uno scampato all’oblio appena in tempo: era finito in Messico, l’Udinese l’ha ripescato con uno dei suoi movimenti proverbiali, la scommessa sul talento disperso, e lui a 31 anni sta rivivendo i fasti di Marsiglia, quando Marcelo Bielsa s’inventò la seduta sulla ghiacciaia e per un lungo anno il Velodròme divenne la Graceland dei cultori del fútbol. È normale che ci voglia qualcosa di speciale per dare il primato all’Udinese, un campione del mondo regge bene la parte. Ne abbiamo citati dieci, tacendo dei tre in panchina: Gilardino, Nesta e Fabregas. E okay, siamo arrivati al colpo di scena della settimana.
Daniele De Rossi, un licenziamento sbagliato nei modi
Non è più attivo il quattordicesimo, Daniele De Rossi, perché è stato offeso dalla Roma. D’accordo, il termine tecnico è “esonerato”, se volete aggiungerci una nota di brutalità “cacciato” rende l’idea. Ma non basta. Se licenziare un allenatore alla quarta giornata è spesso un nonsense; se farlo dopo che le prime tre erano state condizionate dal mercato aperto è in tutta evidenza un errore; se la decisione è stata presa malgrado il primo tempo di Genova avesse dimostrato che la squadra andava nella direzione giusta; se stracciare un contratto triennale appena firmato non fosse di per sé il tracollo di qualsiasi manager. Ecco, se a tutti questi se aggiungete che si sta parlando di Daniele De Rossi e della Roma, dell’uomo che in chiusura della sua storia da calciatore aveva detto “il mio unico rimpianto è poter donare una sola carriera alla Roma”, e se ne stava invece costruendo una seconda, converrete che c’è molto di offensivo nella scelta di licenziarlo.
I Friedkin e un silenzio che non è innocente
Stanchi di certi presidenti italiani specialisti in intrighi, congiure e piccinerie varie, eravamo tra quelli contenti dell’arrivo in Serie A degli americani, un piano Marshall non solo di denari a sanare i debiti, ma di comportamenti ispirati al profitto, che quando viene esplicitato rappresenta sempre il più onesto degli obiettivi. Beh, era un’illusione. I Friedkin sono famosi per non commentare mai nulla, ma stavolta il loro ha smesso di essere il silenzio degli innocenti. Non a caso sono rientrati negli Stati Uniti, evitando saggiamente il test di popolarità di domani all’Olimpico. Ogni augurio a Ivan Juric, che non c’entra nulla in quanto accaduto: siamo molto curiosi di vedere quanto utilizzerà Dybala, per capire se è stata davvero l’antisportiva clausola dell’impiego limitato (per non far scattare la stagione supplementare del contratto) a perdere De Rossi, che giustamente non la teneva in considerazione.
Ibrahimovic e la mancanza di ironia
La nuova Champions League, subito ricca di partitoni, ha logicamente prodotto una quantità di storie forti. Quella che ci riguarda da vicino è il derby di Milano, tra un’Inter che regge il confronto col Manchester City a casa sua e un Milan incapace anche solo di reagire al dominio del Liverpool a San Siro. E mentre Paulo Fonseca si avvia al match col passo del dead man walking, il suo “superiore” Ibrahimovic — al quale abbiamo sempre riconosciuto una componente divertita nella rappresentazione divina di se stesso — stavolta riafferma il suo primato senza un’ombra di sense of humour, anzi, con un lessico da social per bambini di ogni età. Il deficit di ironia è il vero male del calcio moderno. Dopo il ritiro, si andava a intervistare Liedholm — svedese come Ibra — una volta a campionato, il giorno in cui compiva gli anni. Una volta gli chiesi se si sentisse ancora in grado di allenare. Non fece in tempo a rispondere perché la moglie Nina saltò su battagliera, «certo, e sarebbe ancora il migliore perché…» e giù mezzo minuto di motivi molto tecnici, finché Nils la interruppe con un cenno. «Grazie Nina, basta. Sennò lui capisce chi ha fatto la formazione in questi anni».