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Christian Riganò: “Ho giocato con Messi, ora faccio il muratore. Ai calciatori dico: la vita nell’ovatta non dura per sempre”

Intervista all’ex centravanti viola, che ha fatto di Firenze la sua casa: “Qui con i tifosi è una festa tutti i giorni. Nessuno mi chiama per nome, sono semplicemente ‘il Bomber’. Quando torno nella mia Lipari amo pescare e dimenticarmi del telefonino”

Christian Riganò conosce la bellezza e la fatica. È nato cinquant’anni fa a Lipari, nel paradiso terrestre delle Eolie, e vive nell’incanto di Firenze. Muratore, calciatore e poi di nuovo muratore, «perché io so fare bene due cose: i gol e le case. E non è che a quarant’anni ti reinventi e diventi un altro. A star fermo impazzirei. Certo, se avessi dieci milioni in banca vivrei più sereno, quello sì».

Cercare Riganò quando è nella sua isola non è semplice: «Ci sto un mese all’anno e dimentico tutto, anche il telefonino. Sono nel mio habitat naturale, non ho bisogno di mettermi pantaloni e camicia. Mi piace andare a pescare con mio fratello: lui lo fa per campare, è il suo lavoro, io gli faccio compagnia».

In città la sua vita è decisamente diversa.

«A Firenze non sono più Christian, mai nessuno che mi abbia chiamato così. Per tutti sono “il Riga” o “il bomber”. Vivo in mezzo a loro da 22 anni, ma è una festa tutti i giorni, come se fossi tornato in città per la prima volta. Lo dico sempre ai fiorentini: dalla vostra tragedia calcistica è nata la mia fortuna».

Lei fu preso nel 2002 quando il club fallì e fu costretto a ripartire dalla C2 col nome di Florentia Viola.

«Giocavo in C1 nel Taranto, avevo segnato 27 gol in campionato ma ho subito accettato, perché ero certo che i Della Valle puntassero a risalire in alto il prima possibile. In città c’era tristezza, depressione calcistica. Una squadra con quella storia quasi cancellata, fallita per due spiccioletti, quando poi negli anni successivi si sono visti salvataggi spericolati…Nella prima stagione ho segnato 30 gol, abbiamo iniziato insieme il cammino che ci ha portato in Serie A nel 2004 ed è scoccata la scintilla».

“Dio perdona, Riga-no”, scrivevano sugli striscioni i suoi tifosi.

«Che poi nella vita non ho dovuto perdonare chissà chi, mai avuto grosse beghe. Comunque quando arrivava una palla dentro l’area, più o meno finiva in quella maniera lì, era sempre gol. A Firenze, come a Taranto e a Messina. E pensare che a Lipari avevo iniziato giocando in difesa».

E poi?

«Avevo vent’anni ed eravamo in difficoltà in attacco: qualcuno era andato via, altri per lavoro non c’erano mai. Il centravanti titolare si è fatto male e io sono andato a sostituirlo: una figata pazzesca. Ho segnato subito e ho pensato: là dietro non ci torno più, si sta così bene qui davanti, non fai un cazzo e gli altri corrono pure ad abbracciarti».

Quel giorno è iniziata una carriera che l’ha portata nella Liga spagnola dove, il 29 settembre 2007, ha sfidato Leo Messi in Levante-Barcellona: 4-1 per i catalani in risultato finale.

«Messi era giovane, aveva vent’anni. Forte, fortissimo, segnò anche un gol. Ma giocava in una squadra di fenomeni, c’erano Xavi, Iniesta ed Henry, che fece una tripletta e poi mi regalò la sua maglia, azzurra e con la scritta Unicef».

La conserverà come una reliquia.

«Se l’è fregata mio figlio Niccolò di 14 e mezzo, che fa la collezione. Gioca centravanti nell’Affrico, una squadra qui di Firenze. È già alto quasi 1.80, una bella bestia».

Forte come il papà?

«Lasciamolo crescere in pace e divertirsi. Non voglio mettergli nessuna pressione addosso, sto zitto a meno che non sia lui a chiedermi un consiglio. Posso dire però che è sulla buona strada ed è partito con grande anticipo rispetto al padre».

Che ha esordito in Serie A a trent’anni.

«Tanti mi dicono: “Se fossi arrivato prima, magari a 25 anni, avresti fatto un’altra carriera”. E io: “E se non fossi arrivato proprio?”. Io sono nato a Lipari, dove il calcio quasi non c’era, era divertimento e basta. Potevi sperare di arrivare in Eccellenza, non di più. Per arrampicarmi in alto non ho dovuto sbagliare nemmeno una stagione, gol dopo gol ho scalato la montagna. I record non mi interessano, ma posso dire che mi manca soltanto la terza categoria: se avessi giocato e segnato anche lì, avrei partecipato e fatto gol in tutti i campionati italiani».

Però non ha mai indossato la maglia azzurra.

«Il mio unico cruccio. Sarebbe stata la chiusura del cerchio, il coronamento di una carriera travagliata, conquistata. A fine 2006 l’Italia giocò in amichevole quando ero capocannoniere in A col Messina. Ci ho sperato, ma il ct Donadoni non mi ha chiamato. Pazienza. Ai miei tempi un attaccante per arrivare in Nazionale doveva sperare in un’epidemia, dovevano ammalarsi tutti. Davanti a me c’erano Del Piero, Totti, Toni, Di Natale, Iaquinta, Inzaghi. E qualcuno rimaneva a casa. Oggi Spalletti prende quello che offre il mercato: Scamacca si è fatto male, ci sono Retegui, Raspadori, magari Lucca in cui rivedo qualcosa di me come centravanti da area. Li chiama tutti e tre e non ha problemi».

Nel 2008, dopo la parentesi a Siena, è di nuovo sceso di categoria: Prima divisione, Promozione, Eccellenza.

«E mi sono divertito anche nel percorso inverso, perché non me la sono mai tirata. Tanti pensano: “Questo ha giocato in Serie A, in prima categoria segnerà cinquanta gol”. Mica vero. I gol arrivano se sai calarti nella realtà, misurarti con ragazzi che finiscono di lavorare e vengono al campo ad allenarsi per pura passione, magari ricevendo solo il rimborso spese per la benzina. Devi diventare un giocatore di prima categoria anche tu, dimenticarti di quando vivevi nell’ovatta della Serie A».

Quando ha smesso di giocare, lei ha provato la carriera in panchina.

«Ho due patentini da tecnico, ho allenato nei dilettanti, ho vinto anche qualche campionato, ma non ho mai ricevuto telefonate per salire di categoria. Forse per il mio carattere: se mi dai una responsabilità, voglio decidere io, senza compromessi o interferenze. Se non vado bene, mandami pure via, non c’è problema. Questo vale nel calcio ma anche nella vita, in generale».

E così è tornato a fare il muratore.

«Mi sveglio alle 6.30 del mattino, la giornata è lunga fino alle sei di sera, purtroppo fumo più di prima».

Qualche sigaretta anche da calciatore?

«Tre o quattro al giorno, e non ero il solo. Era il segreto di pulcinella: non me le accendevo davanti alle telecamere ma certamente non mi nascondevo ai miei allenatori, con cui ho sempre avuto un rapporto diretto. Una volta, in ritiro con la Fiorentina, Prandelli mi ha visto mentre tiravo due boccate: “Quante sigarette fumi?”, “Poche”, “E fumane di meno”. Ma è finita lì. Perché poi a casa non mi controllava nessuno, ero io a starci attento per un discorso di professionalità e di salute».

-Gioca ancora a pallone?

«Poco. Non ho voglia di allenarmi, non ne ho neanche il tempo materiale. Gli amici mi propongono qualche partitina, così dopo si va a mangiare insieme. Ma quando la palla rotola, diventa un casino. Perché mentalmente sono ancora un calciatore, so come muovermi, ma il fisico non mi aiuta e rischio di farmi male. Esci per divertirti e torni a casa incazzato. L’altra sera però sono stato nelle Marche per una partita di beneficenza, ho incontrato Angelo Di Livio che non vedevo da tempo. Ma è un’eccezione, insomma».

A Firenze come vive?

«Ho trovato la mia dimensione. Giro con lo scooter e in due minuti arrivo dappertutto, la città è piccolina. Non c’è grande traffico, magari adesso un po’ di più perché stanno facendo le tranvie. E poi, lavoro permettendo, vado ovunque quando mi chiamano, nelle tv locali o alle serate dei viola club. Ma se chiamano me, vuol dire che non riescono ad arrivare a qualche giocatore di oggi, quello a cui un ragazzino di dieci anni chiederebbe un autografo. Secondo me i calciatori di oggi dovrebbero essere più disponibili: troppo spesso non capiscono quanto sono fortunati, con un mestiere così bello, che ti fa guadagnare bene e ti permette di lavorare solo un paio di ore al giorno, quasi sempre con il pallone tra i piedi, sai che sacrificio. Devi sempre pensare che nulla è per sempre, che un giorno il calcio finisce».

E poi inizia il futuro. Che per Christian Riganò è stato un ritorno al passato.

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