TORINO – È vero che all’inizio poteva sembrare quella di Allegri e l’altra sera quella di Maifredi, ma questa è, nel bene e nel male, la Juventus di Thiago Motta e non c’entra niente né con una né con l’altra perché sono totalmente diversi i momenti, le situazioni, le cause, gli effetti. La Juve mottiana è agli abbozzi di un piano triennale che non è previsto dia risultati concreti fin da subito. L’allenatore non lo ha mai dichiarato, ma il compito che gli ha affidato il club è di costruire dalle fondamenta una squadra che duri e, nel frattempo, agguantare un posto tra le prime quattro per avere accesso al montepremi della Champions, condizione per mantenere inalterato il valore della rosa (o, se Giuntoli sarà bravo, di migliorarlo) continuando ad abbassare il monte stipendi e quindi a ridurre il passivo di bilancio che dal 2018 è strutturale e nel 2022 ha toccato i 239 milioni. Dirigenti e allenatore sapevano che il requisito iniziale sarebbe stata la pazienza: loro giurano di averne e ne chiedono altrettanta, ma si sa come funziona il mondo del pallone, che rotola in un sempiterno presente che fotografa soltanto l’immediato. E l’immediato dice che oggi la Juventus è a –7 dal Napoli e fuori dalla zona Champions e ha incassato (ma pure fatto) sei gol in quattro giorni, ma anche che in campionato è imbattuta e in Europa all’altezza della aspettative.
La Juve scriteriata contro il Parma
Ciò che però Motta non si aspettava, al di là degli alibi che può accampare, è la scriteriata prestazione dell’altra sera. I giocatori sono andati per conto loro. L’approccio è stato molle, blando. La reazione allo svantaggio veemente ma confusa, quasi infantile. La responsabilità è certo anche dell’allenatore, perché spetta a lui evitare che le intenzioni dei giocatori gli sfuggano di mano, la conseguenza è che contro il Parma la squadra si è slabbrata, dilatando le distanze tra i reparti e invitando i gialloblù al contropiede. Quando invece è rimasta corta, la Juve ha sì fatto fatica a rendersi pericolosa, ma non ha corso pericoli: sembrava allegriana, ma era soltanto il metodo di Motta di stendere una base sulla quale poi edificare tutto il resto. Un po’ come successe nel 2011 a Conte, che raccolse una squadra reduce da due settimi posti e la trasformò piano piano in un blocco di granito. Ma prima di arrivare in vetta tirò avanti a colpi di pareggi indecifrabili: cinque nelle prime dieci partite. Non perdeva, non perse mai, ma non aveva le Coppe.
Gli infortuni
Se il programma di Motta sta avendo degli intoppi è in buona parte causa degli infortuni che hanno condizionato questo scorcio di stagione con 7 partite in 21 giorni affrontato senza Koopmeiners, Douglas Luiz, Nico Gonzalez, Milik e soprattutto Bremer, che per l’allenatore era quel leader in campo che con la presenza migliora il rendimento dei compagni, Kalulu e Gatti specialmente. Sono mancati i pochi esperti, quelli che hanno già l’abitudine a giocare una volta ogni tre giorni che molti altri, a cominciare da Yildiz, devono ancora prendere. Alcuni elementi sono stati spremuti fino al limite: sono stati i dati raccolti dallo staff a consigliare un turno di riposo per Kalulu e che ogni probabilità lo consiglierà per Vlahovic, che domani a Udine dovrebbe partire dalla panchina anche se non ha un vice e il centravanti toccherà farlo a Yildiz o Mbangula. Mercoledì è rientrato Koopmeiners, che però viene da un mese di inattività: gli serve tempo. Luiz ci sarà martedì a Lille, mentre Nico riapparirà nel derby del 9 novembre, così Motta potrà tornare a scegliere in libertà e a quel punto certe decisioni (tipo togliere il brillante Weah dell’altra sera o, contro il Cagliari, lasciare troppo a lungo Yildiz in panchina e Mbangula in campo) saranno di sua esclusiva responsabilità. Ma in fondo è giovane anche lui e anche lui ha appena debuttato in Europa: serve pazienza.