Carlo Nesti, 69 anni, ex giornalista Rai che a Torino si è occupato di sport, nella settimana del derby lei ha scritto un post eretico sui social: “Sono un sangue misto, tifo sia per la Juve che per il Toro”.
“Credevo di suscitare grandi perplessità. E invece la stragrande maggioranza dei commenti è stata favorevole. Mi sono anche commosso, perché pensavo di essere solo in questa posizione da WWF, da razza in via d’estinzione”.
Papà bianconero, mamma granata, lei nasce juventino. Facile tifare da bambini per quelli più forti.
“Ma quando ero più io la Juventus per anni non ha vinto lo scudetto. È tornata a farlo nel 1967, con Heriberto Herrera allenatore. Era una Juve operaia, senza grandi stelle, che puntava sulla grinta, sul temperamento. Che poi sono le caratteristiche tipiche del Torino”.
La sua partita del cuore?
“La semifinale di ritorno di Coppa dei Campioni, nel 1968, contro il Benfica del grande Eusebio. La Juve perse 1-0 e venne eliminata ma lo spettacolo del tifo, quella sera allo stadio Comunale, fu indimenticabile. Mi hanno detto che anche l’avvocato Agnelli ne rimase colpito, tanto da decidere di investire ancor di più nella squadra. E poi non posso dimenticare la finale di Coppa Campioni contro l’Ajax, nel 1973, anche se perdemmo 1-0 pure in quell’occasione. Ero a Belgrado con mio padre, mio cugino Edmondo e il mio amico Giuseppe; quarantamila juventini, almeno ventimila bandiere. All’epoca prima delle partite internazionali dei club venivano suonati gli inni: in vita mia non ricordo un altro inno cantato con quel trasporto, all’unisono”.
È mai stato anti torinista?
“Mai. Il Toro è sempre stata la mia seconda squadra. E non sono l’unico, in città, mentre non troverai mai un tifoso granata che vede con simpatia la Juve”.
Perché questa asimmetria, secondo lei?
“Perché la Juve ha vinto tanto e molti suoi tifosi hanno avuto un atteggiamento di comprensione per la sfortuna del Toro, dalla tragedia di Superga alla morte di Gigi Meroni, fino alle vicende di campo – che ovviamente hanno tutt’altro valore – come i due pali e la traversa colpiti nella finale di ritorno di Coppa Uefa del 1992, ad Amsterdam, contro l’Ajax. Chi ha vinto un solo scudetto dopo la terribile fine del Grande Torino, invece, vive il rapporto con l’altra squadra della città con un senso di frustrazione”.
Lei ha scritto sui social: “Per me la Juve è moglie, e il Toro è amante”.
“…e anche che quando sono sereno, mi sento bianconero, quando m’incazzo divento granata. Sono caratteri diversi: nel Dna di un torinista c’è il revanscismo, il desiderio di rivincita per le tragedie subite”.
Come si è evoluto il suo rapporto con il Toro?
“A metà anni ’70 ho iniziato a bazzicare la redazione di Tuttosport, dove mi hanno insegnato che un bravo cronista deve sempre cercare di essere imparziale, spogliandosi del suo tifo. Può suonare strano in un’epoca in cui i giornalisti vanno in tv schierandosi apertamente, ma allora funzionava così. Poi, per lavoro, ho frequentato da vicino le due squadre e mi sono ancor di più avvicinato al Toro”.
Perché, com’era casa Juve?
“Un po’ troppo austera. Invece, così come altri giovanissimi colleghi, trovavo molto accogliente l’ambiente Toro. Gli affetti si sono un po’ bilanciati. Ed è successo ancor più nei dieci anni, dal 1982 in poi, in cui ho avuto l’onore di giocare a pallone, al Filadelfia, con colleghi, arbitri, dirigenti, e soprattutto ex giocatori del Torino, come Santin, Salvadori, Zaccarelli. Giocavamo tre volte a settimana, a ora di pranzo: ero un terzino destrro abbastanza scarso, ma sono migliorato accanto a queti grandi calciatori”.
Come vede il Torino di oggi, che viene da cinque sconfitte nelle ultime sei partite di campionato?
“Sono molto preoccupato. Ho sempre detestato la tranquillità da centro classifica degli ultimi anni, ora invece la vedo come un obiettivo desiderabile, perché ho il grande timore che la squadra possa precipitare in zone pericolose. I limiti delle rosa sono notevoli, ogni anno sono stati venduti i pezzi pregiati, ultimi Buongiorno, finito al Napoli e Bellanova, passato all’Atalanta. Eppoi se c’era un giocatore che non doveva proprio farsi male, quello era Zapata, il trascinatore della squadra. Capisco chi contesta l’attuale dirigenza e sogna che la società venga acquistata dalla Red Bull. I tifosi del Toro sono davvero innamorati della loro squadra: dal nonno al nipote il 90% di chi va allo stadio indossa la maglia granata”.
Cosa pensa del nuovo tecnico del Torino, Paolo Vanoli?
“È un ottimo allenatore. E mi preoccupa che abbia detto dopo l’infortunio di Zapata ‘Ora tutti dovremo dare sempre il 120%’. Una squadra deve poter vincere anche quando non è al 100%, se parli di 120 significa che temi un tracollo”.
E la nuova Juventus di Thiago Motta?
“Cito un allenatore che ho sempre stimato, Claudio Ranieri: la scorsa estate è avvenuta una rivoluzione culturale nella Juve. Bisogna saper aspettare. Questo è il momento degli alti, come contro il Lipsia e dei bassi, vedi la partita con lo Stoccarda. A voler essere cattivi, squadre che hanno cambiato tanto ma spendendo meno, come Fiorentina e Lazio, stanno già raccogliendo i frutti del rinnovamento, con un gioco brillante e produttivo. Però il popolo juventino mi sembra abbia capito che ci vuole un po’ di pazienza. Con Udinese e Lille – anche se in Champions non è arrivata la vittoria – ho visto dei passi avanti, nonostante l’assenza del calciatore più importante in rosa, Bremer. Quando si è fatto male lui, a Lipsia, è crollato un monumento. E il numero dei gol incassati da quel giorno sta lì a dimostrarlo”.
Che partita sarà Juventus-Torino, Nesti?
“C’è una chiara favorita, la Juve, anche perché gioca in casa. Ecco, non sarà uno di quei derby che piacevano a me. Io ricordo le sfide al Comunale, con la vendita libera dei biglietti. Uno spettacolo incredibile, con lo stadio diviso esattamente a metà. Era come se nei distinti centrali, davanti alla tribuna, fosse stata tracciata una linea verticale, invisibile ma evidentissima, neanche l’avessero misurata con il centimetro: da una parte c’era la tifoseria bianconera, dall’altra quella granata. Un metro di qua si tifava Juve, un metro più in là tutti per il Toro. Se penso a quello spettacolo, ancora adesso, a distanza di anni, mi vengono i brividi. Ora, con gli stadi quasi esclusivamente riservati ai tifosi di casa, i tifosi della squadra in trasferta sono relegati in un settore assolutamente minoritario. E così si perde la magia”.