La corretta parità fra Inter e Napoli nello scontro diretto finisce di assemblare un campionato conteso come da tempo non si vedeva. Sei squadre in due punti a (quasi) un terzo del cammino disegnano un panorama affollato e pluralista, libero da dittature perché non ci sono meccanismi perfetti, e quelli più divertenti appartengono alle protagoniste che non t’aspettavi. Il Napoli resiste bene al secondo test di San Siro: passa per primo col nuovo totem McTominay, viene ripreso da un capolavoro balistico di Çalhanoglu, e in una ripresa progressivamente vissuta in trincea sopravvive a un rigore talmente leggero che lo stesso turco deve considerare irricevibile, visto che per la prima volta da quando è all’Inter lo sbaglia.
Conte impreca nel finale per la chance fallita da Simeone, ma se un rimpianto complessivo ha cittadinanza riguarda più Inzaghi, che in casa ha perso il derby e pareggiato contro Juve e appunto Napoli. Non è un rendimento da favorita. Se poi la vittoria contro Motta era stata gettata per la quantità di occasioni mancate, questo match è stato più minimalista, un braccio di ferro restio a discostarsi da un prudente equilibrio. L’Inter poteva vincerlo con un numero da fuori di Dimarco, il pezzo meno prevedibile della sua scacchiera. A innescare la palla-gol della potenziale beffa partenopea è stato Ngonge, mica Lukaku o Kvara: coriandoli di uno scontro diretto che sedimenterà nelle prossime due settimane senza toglierci dalla testa ciò che sta accadendo dietro.
Atalanta, Fiorentina e Lazio si confermano le squadre più sexy d’autunno concludendo in gloria il segmento di 7 partite (5 di A, 2 europee) tra una pausa e l’altra. Sei vittorie e un pari col Celtic per Gasperini, sei vittorie e un ko con la Juve all’85’ dopo tre quarti di gara in dieci per Baroni, sei vittorie e una distrazione in Conference per Palladino. Ieri sono salite a quota 25 vincendo gare toste, contro rivali astute nel disegno di prenderle per stanchezza. Quando si giudica l’Atalanta ormai matura per la lotta scudetto, è a partite come quella con l’Udinese che ci si riferisce: un match aspro e in bilico dall’inizio alla fine, portato a casa grazie alle fiammate di Bellanova, per la prima volta decisivo, e anche alle parate di Carnesecchi.
La Viola col Verona ha assecondato l’ispirazione suprema di Kean: se andiamo indietro anche solo di pochi mesi, l’idea che Spalletti abbia a disposizione due centravanti così rilevanti (l’altro è Retegui) ci rimette in pace col mondo. La Lazio è passata a Monza azionando nel primo tempo la sua cavalleria leggera e tracciando una linea da difendere a ogni costo nella ripresa. Si sono così rimesse dietro la Juve, dominante sabato nel derby, e almeno per il momento la poule scudetto si chiude qui. Se il Milan senza difesa o il Bologna che ha finito la Roma di Juric vincessero un giorno (chissà quando) il recupero che le riguarda, ridurrebbero una distanza che oggi pesa sei punti. Tanti.
Novembre è il più crudele dei mesi calcistici perché l’ultima pausa prima di una lunghissima sequenza di gare senza requie — 17 turni di campionato più le coppe fino agli ottavi — fornisce l’occasione estrema di rilanciare una stagione cambiando l’allenatore. L’ha fatto il Lecce insoddisfatto di Gotti, l’ha rifatto la Roma con la decisione di esonerare Juric.
Prosegue così un calvario figlio della scelta scellerata di cacciare De Rossi, presa a metà settembre dalla proprietà americana su input di una manager greca, e i cui effetti rovinosi si sono protratti fino a ieri, quando un diesse francese ci ha raccontato nella sua lingua — particolare che descrive la provvisorietà che governa il calcio moderno, perché faticare a impararne una nuova se oggi sono qui e domani dall’altra parte d’Europa? — i pallidi presupposti dell’ennesima ripartenza. Juric è una persona degna ritrovatasi in una situazione impossibile: lo spogliatoio l’ha percepito come un supplente, e i supplenti hanno una sola chance di catturare gli alunni, quella di affascinarli. Ma Juric non insegna un calcio affascinante, lo storico delle sue squadre ci dice che segnano poco e subiscono meno, un allenatore di lotta mentre il mercato della Roma aveva virato sulla qualità, dunque sul governo delle partite. Non poteva essere la sua rosa, non lo è stata.
Sul successore, sarebbe carino che qualcuno ci spiegasse — nella lingua che desidera, anche in swahili se l’interprete è bravo — perché non possa essere De Rossi. Al di là dei puerili sussurri, tipo che implicherebbe l’ammissione di un errore, noi non l’abbiamo capito.