La doccia fredda del primato perduto macchia l’autunno azzurro senza però rovinarlo. L’euforia si stempera davanti al mestiere di una Francia rivitalizzata rispetto ai fantasmi di settembre a Parigi. Mestiere, sì. Segna tre gol su calci piazzati — chi l’avrebbe mai detto che il nostro carnefice sarebbe stato un romanista dimenticato come Digne? — e questa è una colpa precisa degli azzurri, che si sono scordati pure il più recente Rabiot; ma soprattutto la Francia ci impedisce di giocare, se non nell’impetuosa reazione di Dimarco e Cambiaso al gol dello 0-2 e poi nell’assalto finale. Il bilancio del girone resta positivo nel risultato, perché precedere il Belgio era tutt’altro che scontato, e soprattutto nel gioco che ha guidato la ripartenza post-Europeo. Spalletti ha trovato e ritrovato giocatori destinati a essere importanti, e in attesa che i club gli forniscano quel che manca — Maldini l’anno prossimo dovrà giocare le coppe, è lì che si aggiunge spessore all’eleganza da trequartista — può affrontare il resto della Nations e soprattutto le qualificazioni mondiali. Per sognare più in grande occorre ricostruire dalle fondamenta il castello difensivo sui calci piazzati, e poi migliorare la redditività della punta, destinata a rimanere unica a meno di una resurrezione di Chiesa oggi imprevedibile.
Ora che è venuta la prima sconfitta, è giusto ricordare che due mesi fa Spalletti era ripartito fra mille dubbi — anche nostri — dopo il fallimento europeo, e che quindi è stato bravo a ricostruire l’Italia nel breve volgere di sei partite. L’altro giorno il ct, nel ripercorrere il suo mandato azzurro, ha ristretto il flop di giugno a una sola partita, lo sciagurato ottavo contro la Svizzera. È una visione riduttiva perché l’Europeo è stato sbagliato in toto, dalla scena muta con la Spagna al pari miracoloso con la Croazia. Ma questo aumenta il valore della riscossa, perché l’Italia non si è rimessa in piedi da uno scivolone, è risalita da un abisso. Spalletti l’ha fatto adattando il suo calcio ai giocatori migliori di questa generazione. Abbiamo due esterni superlativi come Cambiaso e Dimarco, quindi difesa a tre e centrocampo a cinque; abbiamo mezzali di qualità come Barella, Tonali e Frattesi, quindi meglio rinunciare alla seconda punta che a uno di loro; abbiamo due difensori capaci di giocare in ogni zona del campo come Calafiori e Bastoni, quindi appena può la difesa a tre manda un uomo avanti. Ne deriva un centrocampo composto da sette uomini che contiene tutto: la protezione, la regia, il palleggio, l’incursione, il gol.
Gli esperimenti verso il Mondiale
Non sarà l’eterno progetto di Guardiola, che fin da Barcellona studia la squadra interamente composta da centrocampisti con l’utopia di non perdere mai il pallone, ma resta il modo più moderno di mantenere il controllo, ossessione di tutti gli allenatori. Il tempo che ci separa dal Mondiale s’incaricherà di consolidarlo nella mentalità collettiva di questa Nazionale. L’Europeo è andato come è andato perché Spalletti, angosciato all’idea di aver potuto lavorare poco con la squadra — da settembre a giugno — appesantì di tattica e retorica l’avvicinamento al torneo e la sua gestione, nell’illusione di colmare il gap. Al di là dei quarti di Nations raggiunti, l’autunno gli è servito per dare all’Italia rinnovata le nozioni di base sulle quali crescere. Se andremo al Mondiale — e in quel “se” c’è più scaramanzia che timore — la sua preparazione non sarà più un corso di recupero accelerato, ma una rifinitura sui residui punti deboli (la difesa sui calci piazzati). Un’altra vita.