Riad – Paolo Tramezzani è in ritiro in Portogallo con l’Yverdon. L’ex difensore dell’Inter è stato chiamato in corsa dalla squadra svizzera per salvarsi. A viaggiare è abituato. Ha allenato in sette Paesi, compresa l’Arabia Saudita. «Nel 2021 ho preso l’Al-Faisaly, a Harmah. Ho un bel ricordo dell’Arabia. E sto seguendo la Supercoppa, ovviamente».
L’ha stupita vedere gli spalti mezzi vuoti per Inter-Atalanta?
«No. Tolta la prima di campionato a Gedda, dove c’era il tutto esaurito, mi è spesso capitato di allenare in stadi con poche centinaia di tifosi. Eppure, lì il calcio è seguitissimo».
Come si conciliano le due cose?
«Penso che il pallone per gli arabi sia per lo più uno spettacolo televisivo. Si trovano per vedere le partite a casa o nei locali, dove fumano tabacco aromatizzato. Sugli spalti è vietato».
Per Juventus-Milan però era tutto pieno, e ci si aspetta che stasera lo sarà di nuovo.
«Le partite di cartello convincono più persone a sfidare il traffico. Ma in vista dei Mondiali del 2034 il movimento calcistico saudita deve trovare il modo di riempire le tribune, facilitando l’arrivo di tifosi stranieri e promuovendo lo sport dal vivo fra i locali».
Come ha vissuto i fischi dello stadio di Riad un anno fa durante il minuto di silenzio per Riva?
«Il tema riguarda più noi che loro. Se vai in un altro Paese devi conoscerne la cultura. È un fatto di rispetto. I rituali di ricordo dei morti sono un tema delicato, coinvolgono il sentimento collettivo di ogni popolo».
Parla come un antropologo, più che come un allenatore.
«Mi piace studiare e viaggiare. Ai colleghi consiglio di fare le valigie e partire».
Lei viveva a Harmah, sua moglie e sua figlia a Riad, a 200 chilometri.
«Lì c’era la scuola internazionale. Adattarci agli usi del posto è stato facile. Conciliare il ritmo degli allenamenti coi tempi della preghiera islamica è stato stimolante. E d’altro canto, i sauditi si stanno aprendo al mondo. La crescita del loro campionato di calcio lo dimostra».
Eppure la sua esperienza araba è durata poco.
«È arrivata la chiamata al Sion, che per la terza volta aveva bisogno di me. Non ho saputo dire di no».