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Belahyane: “Il calcio migliore si impara ancora sui marciapiedi”

Il centrocampista del Verona: “Ho scelto questa squadra per il progetto. So che adesso valgo tanto sul mercato ma i miei genitori mi ripetono di non pensarci sennò poi gioco male”

VERONA — Reda Belahyane è un ventenne timido, un centrocampista sfacciato, l’ennesimo scalpo di uno dei più fini scopritori di talenti, il ds del Verona Sean Sogliano, e l’oggetto del desiderio di mezza serie A: arrivato dal Nizza per 500 mila euro, adesso vale 40 volte tanto. «Anche la mia famiglia l’ha saputo e mi ha subito detto di non pensarci, altrimenti comincio a giocare peggio. Sto facendo così: non penso molto al futuro, quel che sarà, sarà».

La sua famiglia, Reda?

«I miei hanno lasciato Agadir per la Francia nel 1993. Siamo sei fratelli, tre maschi e tre femmine, il più grande ha provato a fare il calciatore ma poi ha dovuto lavorare. Papà è cuoco, mamma donna delle pulizie: per crescerci hanno fatto tanti sacrifici ma non ci hanno fatto mai mancare nulla. Mio padre non ha la patente ma per anni mi ha accompagnato agli allenamenti, un’ora di metro ad andare e una a tornare. Sono cresciuto nella banlieue di Parigi, ad Aubervilliers. Quartiere difficile, dove c’è tanta criminalità ma anche mescolanza, il razzismo non esiste e siamo tutti amici».

Senza pallone, che avrebbe fatto?

«Di sicuro non avrei preso una cattiva strada: l’educazione che mi hanno dato i miei genitori non me l’avrebbe permesso».

Grazie al calcio pensa di portarli via da Aubervilliers?

«È il mio primo obiettivo. Guadagno più della maggior parte del miei coetanei ma non ancora abbastanza per poter cambiare vita a me e loro».

Sa che l’Ile de France è il posto da cui arrivano più calciatori?

«Con Dembélé del Torino e Da Cunha del Como ci conosciamo da bambini e sono gli unici di cui ho la maglia. Di solito non la chiedo neanche a chi ho ammirato, tipo Lobotka e Nico Paz».

Cosa ha di speciale la periferia di Parigi?

«Ha che il calcio è uno dei pochi modi per uscirne. E si gioca ancora per strada. A 9 anni ero già in una squadra, ma non ho mai smesso di giocare con gli amici: correvo dietro al pallone dalle 10 del mattino alle 11 di sera. Il calcio da marciapiede rimane una scuola straordinaria, certi trucchi li puoi imparare solo lì».

Dopo le giovanili nella Francia, a ottobre ha esordito nel Marocco: perché non ha aspettato i Bleus?

«Perché sono marocchino di sangue, cultura, famiglia, radici, adoro il cibo marocchino e il mio sogno è sempre stato giocare nel Marocco».

Ha mai avuto problemi di razzismo?

«No, mai. È assurdo che accadano certi episodi: lo sport dovrebbe avere il valore del rispetto al primo posto. Siamo tutti fratelli, no?».

Perché il Nizza l’ha lasciata andare via?

«Ho avuto una discussione con il ds, mi ha detto che non avevo speranze di giocare. L’allenatore era Farioli, che mi ha chiesto di avere pazienza perché i titolari a centrocampo li aveva, ma io l’ho avvertito come un tappo alla mia crescita».

Lei non è un tipo paziente.

«Amo la pazienza, ma di più giocare. Il Verona mi seguiva da un po’, il progetto mi è piaciuto subito e Zanetti mi dà fiducia e mi parla tanto. La serie A, poi, è più complicata della Ligue 1, ci sono tanti campioni: sfidarli mi aiuterà a crescere, così come allenarmi con i miei compagni Serdar, Duda e Dani Silva».

Il suo modello chi è?

«Ngolo Kanté, per come gioca e per la sua umiltà. Non l’ho mai conosciuto di persona, ma non è importante».

Vuol descriversi come calciatore?

«Sono un centrocampista difensivo, sono aggressivo, recupero palloni, sono solido e mi piace tenere la palla quando sono sotto la pressione di un avversario, non farmela portare via: è la cosa che so fare meglio».

Il suo fisico minuto non è un problema?

«No, se non per il fatto che non sono forte di testa».

Neanche contro avversari grossi il doppio di lei, tipo il suo ex compagno Khéphren Thuram?

«Neanche un po’. Neanche con lui. Se affronto un avversario in un duello, mi dico che non può e non deve battermi».

Sembra molto sicuro di sé.

«Lo sono ma non è arroganza, è così. L’avversario non deve passare, perché se passa vanno in difficoltà i miei compagni».

Non l’ha turbata neanche giocare davanti a migliaia di persone?

«Non vedo il problema. Le gambe ti tremano un po’ all’inizio, poi passa».

Si vuole descrivere anche come ragazzo?

«Vivo in centro ma non esco molto, l’italiano lo parlo ancora troppo poco per farmi della amicizie o una fidanzata. Il tempo libero lo passo alla playstation o al telefono con i miei, ma spesso fratelli, sorelle e amici mi vengono a trovare. Fuori dal campo sono timido, mi esprimo meglio con i piedi».

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