Che settimana, ragazzi: le ultime prodezze social di Adani e Cassano, con l’appoggio esterno di Caressa e Vieri, rivalutano persino il falconiere laziale, il quale finisce con lo stagliarsi come figura esemplare e retta, ma più che altro eretta, se accostata al resto della compagnia.
Ben deciso a proseguire il suo viaggio al termine della notte, il nostro calcio ha trascorso un bel po’ di giorni ad occuparsi di chirurgia plastica, volatili e odiatori in rete, la quale un tempo indicava il luogo verso cui tirare il pallone, mentre oggi è diventata l’universo mondo, rete web virtuale epperò reale, perché concrete e non soltanto eteree sono le conseguenze.
Avrete seguito tutti, purtroppo, le provocazioni di Lele Adani e Antonio Cassano, ormai non solo prigionieri ma ergastolani dei propri personaggi: il primo ha insultato Fabio Caressa senza nominarlo, però all’identikit del noto telecronista mancava solo il codice fiscale; il secondo ha chiamato in causa addirittura la mamma di Bobone Vieri, giustamente adirato nella replica. Anche Caressa, metà Innominato e metà Voldemort, ha risposto, però con eleganza, sebbene in certi casi sarebbe forse meglio glissare. Perché altrimenti l’effetto rimbalzo non si placa mai, si autoalimenta con nuove ingiurie e altri clìc. Si sa che per “andare in tendenza” basta scendere più giù, rotolarsi nel fango. L’ascolto è garantito
C’è violenza, in tutto questo. C’è tragedia ma anche commedia. I nuovi guitti confermano che i social andrebbero vietati ai minori di dodici anni e ai maggiori di venti: in un caso si rischia di essere vittime, nell’altro di fare la figura dei fessi. Se poi i post si rinforzano con un microfono e una spruzzata di popolarità televisiva, il disastro è assicurato.
«Non amo il dissing per fare hype», ha detto Caressa come se fosse Antani, o forse Adani. Ma chi si sarà imbattuto nelle sequela dei video senza nome, senza conoscere il resto della storia non avrà capito niente. E meno ancora gliene sarà importato: perché a nessuno può davvero fregare qualcosa di ciò che si tirano addosso questi soggetti da sottobosco. Non si vedono aquile in giro, a parte quella del falconiere.
Viene il sospetto che sia anche un questione di linguaggio, inteso come sostanza. Già alcuni televolti del pallone ci hanno costretto a imparare o subire un vocabolario senza riscontri reali, brutto perché superfluo, inutile e non solo inelegante, uno slang fatto di “terzi”, “quinti”, “braccetti”, “spazio da attaccare”, “inerzia”, “prospetti” e “scarichi” (ecco, questi andrebbero usati tirando bene l’acqua). L’estrema conseguenza di chi parla male è parlare da solo, credendo di parlare a tutti e a nome di tutti. La confraternita della chiacchiera, che può essere insulsa ma anche violenta, ora si esprime in rancori, faide, gelosie, piccole e grandi vendette, pensando di essere brillante e divertente. Invece no: questa gente fa pena, intristisce sé stessa e chi la guarda. Anche se una soluzione ci sarebbe: smettere di guardarla.
Il calcio era così bello quando ci si menava solo in campo. Scontri frontali, non patetici guaiti da leoni da tastiera o videocamera. Ci siamo distratti, abbiamo dato spazio e ascolto ai peggiori, abbiamo creato mostri e adesso dobbiamo farci i conti. E comunque, se dovete insultarvi, basta una telefonata.