C’era, sì, il problema di girarsi. Ma era tutto molto bello. E con certe partite dal gioco tambureggiante erano emozioni a non finire. Ai giovani fruitori del calcio attuale che amano solo — si dice — gli highlights, viene da dire: chiedi chi era Bruno Pizzul. Il gigante che fece il dribbling tra i Mondiali centrando quelli dove l’Italia, quando andava bene, veniva beffata alla fine: è stato il massimo punto di congiunzione tra calcio del passato e quello in arrivo, delle telecronache a pioggia, e concitate comunque vada.
Pizzul, la voce della Nazionale
Voce ufficiale della Nazionale dal 1986 al 2002, più le partite importanti, prima in epoca di assoluta esclusiva Rai e poi, appunto, agli inizi della valanga pay-tv e affini: lui era del legno antico ma con una tempra tale — e mai ostentata — da diventare cantore unico e ufficiale del calcio allo zenit della popolarità — 27 milioni in visione e all’ascolto per la dannatissima Italia-Argentina del 1990. Ma in tema di partite dannate gli era successo ben di peggio, ovvero in postazione all’Heysel, quella volta che qualunque cosa avesse detto, oppure non detto, il rischio era sbagliare comunque. Riuscì a non sbagliare, fissando sbalordito dove fosse finito quel calcio di cui conosceva tutto.
Le telecronache di Pizzul
Aveva giocato a buon livello, aveva anche marcato Sivori, poi certe porte scorrevoli che per fortuna ogni tanto aprono il varco giusto lo consegnarono alle telecronache. E quindi ne capiva, e quindi bisognava, nelle telecronache per il largo pubblico, usare la competenza fino al punto esatto per non usarne troppa. Ovvio, riusciva meglio nella Rai del tempo, quando la voce di un telecronista per spettatori a decine di milioni si scolpiva dentro e diventava naturale e obbligata per l’ascolto. Con quell’eleganza, poi.
Pizzul e il ritardo per la prima telecronaca
Era una brava persona, soprattutto, anzi ottima e questo lo dicono tutti, portando un rispetto superiore, raramente rintracciabile nell’ambiente. Gli si abbinano tratti di normale perfezione, ossimoro, su cui lui per primo sorrideva forte, smontando tutto con battute studiate («Grande? No, sono alto»). Quello spicchio milanese di strada che quando la si cita, Corso Sempione, chiunque sa di cosa si sta parlando: la Rai, e casa sua un po’ più in là, un tratto da percorrere sempre in bicicletta — non aveva patente — e l’aneddotica costruita con pochi episodi ripetuti nel tempo delle interviste — partita a Como, il sodale Beppe Viola che lo incalza: prima si va a pranzo, tanto è un attimo arrivare. E fecero tardi, salvati dalla gara trasmessa in differita.
Pizzul e la tv
Da pensionato riprese a bazzicare l’ormai variegato, nonché variopinto, mondo televisivo: rimaneva la questione di non aver mai commentato un titolo mondiale. Rimanevano quelle quattro lettere («Alto!») al rigore di Baggio. A La7 gli fecero doppiare le partite dell’82: bonariamente accettò, forse proprio perché non si continuasse a farne un caso, non fu una grande idea. O meglio, lo erano tutte, grandi idee, perché a sorreggerle c’era la normalità eccezionale, ossimoro numero 2, di Bruno Pizzul. Ed era tutto molto bello, comunque.