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Khalida Popal: “Lo sport salverà le donne afgane, facciamo gol ai talebani”

Incontro con l’ex capitana della nazionale femminile di Kabul. Vive in Danimarca e aiuta ancora le atlete a fuggire dal regime

COPENAGHEN — “La lingua del calcio è la lingua della guerra. Il tuo allenatore è il generale e voi siete i soldati. Strategia e tiri. Difesa e attacco. Devi vincere le tue battaglie. L’inno nazionale suona e la folla versa lacrime patriottiche. Ma è anche un gioco. In questa tensione tra conflitto e gioco, distruzione e creazione, c’è qualcosa di essenzialmente umano. Qualcosa di bello. Apri gli occhi”, ha scritto nella sua autobiografia romanzata My Beatiful Sisters – A Story of Courage, Hope and the Afghan Women’s Football Team (John Murray Press) ancora inedita in Italia. E Khalida Popal, la ex capitana e cofondatrice della Afghan Women’s National Football Team, ha tenuto sempre gli occhi sempre aperti. Spalancati. Fino a diventare un’icona per le atlete che reclamano il diritto a scendere in campo contro i talebani e l’apartheid di genere. Fino al punto di riuscire ad avviare un negoziato con la Fifa per ottenere il riconoscimento della squadra in esilio che lei è riuscita a far evacuare nel 2021, smuovendo il mondo. Ce lo ha confidato nella sua casa di Copenaghen, dove vive in esilio dopo la fuga nel 2011 in India con un passaporto falso perché nel suo Paese era diventata un bersaglio mobile. Khalida Popal ha un guizzo indecifrabile negli occhi che continua a tenere aperti in attesa del gol ai rigori da infilare nella rete dei talebani che l’hanno perseguitata fin da quando aveva 8 anni ed è fuggita in Pakistan durante il primo regime talebano. “Aspettavamo questo momento da oltre tre anni. Non so quanto ci vorrà, alcuni mesi credo, ma dobbiamo riuscire a ottenere il riconoscimento da parte della Fifa”, ci racconta appena entra in casa, trafelata e con le borse della spesa ancora in mano.

La storia di Popal, fuggita dai talebani

Siamo venuti qui, nella sua casa dalle pareti colorate di giallo e una grande vetrata, per ascoltare la sua epica storia segnata da fughe in avanti, linee rosse oltrepassate per difendere il potere delle ragazze. Sin da quando bussò alla porta della Federazione di calcio afgana con sua madre, ex insegnante di educazione fisica, per chiedere il riconoscimento di una squadra creata attraverso un reclutamento clandestino nelle scuole di Kabul. Una strada tutta in salita, segnata da paletti, divieti e abusi che l’hanno portata a decidere di entrare nella direzione della Federazione di calcio afgana per guidare il comitato femminile di football e diventare direttrice finanziaria in cambio della promessa di attrarre diversi sponsor europei.

Popal perseguita dal regime talebano

Davanti a una tavola imbandita, il pc collegato per una riunione con atlete di diverse discipline rimaste in Afghanistan – che sta cercando di aiutare a resistere grazie agli insegnamenti da remoto e alla collaborazione di alcune università – ci racconta di quella prima vittoria ottenuta quando è riuscita a portare la squadra in semifinale a Islamabad, in Pakistan. Una vittoria che ha creato parecchio scompiglio, nonostante l’elogio telefonico dell’allora presidente Hamid Karzai che le disse: “L’intero Paese è orgoglioso di voi” ma la verità era un’altra e gliela disse un allenatore che la avvisò: “Non importa dove ti metti o come corri, che formazione usi, o tattica, o altro. Non importa se vincete o perdete. Qualunque cosa accada, sarete celebrate in Occidente e porterete in patria la vergogna”. E infatti, rientrate a Kabul, molte calciatrici che giocavano senza aver chiesto il permesso dei genitori per il timore di essere fermate, messe all’indice come prostitute nell’Afghanistan parzialmente liberato da una missione internazionale guidata dalla Nato che si è rivelata un clamoroso fallimento, poi sparirono.

Prima di essere costretta ad andare in esilio, l’ex capitana ha vinto una serie di sfide impossibili, persino da immaginare, che però hanno travolto molte sue compagne. Come una sua compagna di scuola che, davanti al divieto della famiglia a continuare a giocare, si è data fuoco. E tante altre che hanno fatto un passo indietro, costrette dalle famiglie a rinunciare al loro sogno di emancipazione.

La nazionale di calcio dell’Afghanistan femminile

“C’è un momento in cui si sente che si sta diventando una squadra. C’è una sorta di magia in questa sensazione. Come cantare, ballare o innamorarsi. Succede quando ci si rende vulnerabili attraverso la fiducia, l’impegno e la fiducia assoluta negli altri. Apri gli occhi”. Ogni capitolo dell’autobiografia romanzata di Khalida Popal inizia così. Con una breve riflessione sul significato del calcio che l’ha salvata dalla segregazione e “condannata” a non fermarsi mai. Oggi Khalida ci spiega che stava aspettando questo negoziato da oltre tre anni. “Ne stiamo discutendo con Sarai Bareman, responsabile del dipartimento femminile della Fifa e i dirigenti che si occupano dei diritti umani”, ci ha confidato.

L’organizzazione Girl Power

Fondatrice e direttrice dell’organizzazione Girl Power, un brand globale dell’attivismo per favorire l’inclusione e l’empowerment femminile, è la rappresentante legale della nazionale femminile afgana che negli ultimi tre anni ha giocato grazie al supporto del club Melbourne Victory in Australia, dove vive la maggioranza delle atlete fuggite nel 2021. E infatti è da un campo di calcio di Melbourne che è partito l’ultimo appello delle atlete che aspirano a giocare nella Coppa d’Asia femminile 2026, chiedendo quanto meno un’esenzione per partecipare al torneo di qualificazione.

Khalida Popal: “Oggi il mio popolo muore di fame”

Khalida Popal, 38 anni, ha un nome che proviene dall’arabo e significa “per sempre”. E infatti lei sembra una donna destinata a reggere, suo malgrado, ogni difficoltà per sempre. Impaziente, si siede sul divano del salotto per dare una tregua al ginocchio infortunato durante una partita in Giordania e anche ai ricordi penosi. Poi si alza per andare nella stanza da letto dove è appeso l’unico quadro della casa: si intitola Sorellanza e ritrae alcune sagome di calciatrici in un campo da calcio, fra cui lei. E infine si indigna con un vibrante J’accuse. “Nessuno oggi parla di Afghanistan”, afferma con un’espressione grave. “Tutti guardano all’Iran, ma nessuno verso l’Afghanistan perché è scomodo, imbarazzante e vergognoso per il mondo occidentale ricordare come ha tradito il popolo afghano. I miliardi di dollari investiti, le tantissime vite perdute dei soldati e dei civili a cosa sono servite?”, ci chiede con una domanda retorica. “Il mondo occidentale ha lasciato l’Afghanistan a mezzanotte, senza aver favorito la democrazia né aver combattuto davvero contro i talebani. Oggi Il mio popolo muore di fame e il governo dei talebani non ha un programma. L’unica cosa che sa fare ogni giorno è annunciare nuove vessazioni contro le donne. Il loro unico obiettivo è far svanire le donne. Bene. E dopo cosa faranno? Niente. Continueranno a farsi la guerra fra di loro perché solo questo sanno fare. Inoltre i leader vivono all’estero dove fanno studiare le loro figlie”, aggiunge con furiosa amarezza.

La vita dura di Khalida Popal

Le abbiamo chiesto se avesse mai avuto qualche rimpianto. “Sono stata vittima di un complotto, manipolata dal presidente della Federazione Keramuddin Karim che violentava le atlete e ora è un alleato dei talebani, ma se tornassi indietro rifarei tutto” ha replicato dopo essersi seduta sul divano per dare tregua al suo ginocchio e ai brutti ricordi. “Ho passato un anno e mezzo nei centri per migranti, ho attraversato un periodo di disperazione e depressione, ho subito immense perdite ma ne è valsa la pena. Qualcuno doveva scarificarsi per dare un’opportunità alle donne e io l’ho fatto perché essere leader significa anche andare avanti anche quando tutti ti dicono di fermarti, che è pericoloso, che è sbagliato. Sapevo di avere una finestra temporale breve prima di pagare il pegno della mia audacia, ma dovevo provarci”.

Il riconoscimento della Fifa

E infatti ha pagato un prezzo molto alto. Zohra Zafar, con cui ha creato la prima squadra, è stata arrestata per aver invitato un uomo a cena senza che ci fosse un parente maschio in casa. Dopo la detenzione non ha mai più voluto parlarle. Suo fratello minore, che l’ha sempre protetta dagli insulti, dalle aggressioni, dai dubbi di suo padre che spesso la supplicava di non esporsi troppo, è morto in un attentato a un ristorante mentre stava cenando con un amico e lei si trovava in esilio, combattendo per ricominciare da capo. L’11 marzo Khalida Popal sarà a Milano per partecipare alla commemorazione della Giornata dei Giusti istituita dalla Fondazione Gariwo. Quest’anno sarà dedicata a chi ha difeso e difende i diritti umani attraverso lo sport. Khalida sarà onorata con una targa per il suo straordinario impegno. “Parlerò della mia battaglia per ottenere il riconoscimento da parte della Fifa”, ci ha anticipato.

“Nel calcio la maggior parte delle partite si vince con un gol di scarto. Significa che la posta in gioco di segnare o subire un gol è più alta. La frazione di secondo prima di festeggiare un gol è un misto di gioia e di un’altra cosa: sollievo. Apri gli occhi”. E lei li chiuderà, forse, solo quando la squadra che lei ha sostenuto dall’esilio, coinvolgendo l’ex calciatrice americana, Kelly Lindsey che è stata la coach della nazionale femminile afghana, potrà scendere in campo per mettere in rete il gol che aspetta da troppo tempo contro i Talebani.

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