Che tempi quei tempi, quando il Barcellona era la squadra più forte del mondo ma l’Inter aveva saputo essere più forte ancora. Oggi come allora ci sono triplete in ballo (il Barça sogna addirittura il terzo della sua storia e Flick il secondo della carriera), resistono miliardi di suggestioni, ma non c’è più una squadra che mostra miracolo e segna un’epoca. Il Barcellona dei giorni nostri è fortissimo ma non è più quello là, non più Messi e Xavi e Iniesta e Busquets e Puyol e Piqué e persino l’elemento alieno Ibrahimovic. Potrebbe però diventarlo, in qualche modo, perché a 17 anni nessuno, se non forse solamente Pelé (sicuramente non Messi), è stato quello che Yamal già è: un minorenne capace di tutto, anche di giocare con la naturalezza di un minorenne.
Il paradosso della crisi finanziaria, etica e politica
Strana faccenda, questo Barcellona. Sta vivendo da anni una mastodontica crisi finanziaria (ha un indebitamento di 1 miliardo e 300 milioni), politica ed etica senza precedenti, mentre quella tecnica (non arrivava in semifinale da sei anni) si sta risolvendo grazie alla magia di Yamal, al contributo dei ragazzi cresciuti in casa, a cominciare da Pedri e Cubarsí. E all’audace saggezza di un allenatore di sessant’anni suonati che viene da Heidelberg, la città dei filosofi, non ha lo charme della scuola dei profeti catalani, aveva guidato un solo club non di terza serie per neanche due anni vincendo otto titoli, che ha la fortuna di non parlare lo spagnolo e quindi di stare alla larga, semplicemente perché non le può capire, da tutte le beghe che fermentano di continuo dentro e attorno al club e che allena il Barcellona con metodi persino più rivoluzionari di quelli che qui, da Cruyff a Guardiola, fecero le rivoluzioni: tiene la difesa a cinquanta metri dalla porta, barattando quel rischio mastodontico con la libertà creativa che possono prendersi Pedri e De Jong a centrocampo e Raphinha e Yamal in attacco.
Il rivoluzionario Flick
Certe volte — ad esempio nell’andata dei quarti con il Borussia — ne viene fuori un calcio sinfonico, di ariosità e musicalità uniche, infine ritmato dai colpi secchi di Lewandowski, di cui due o tre compagni di squadra, per età, potrebbero essere figli. È la stessa squadra che aveva per le mani l’anno scorso Xavi (c’è solo Dani Olmo in più), ma sembra tutt’altro.
Una spaventosa macchina da gol
Il Barcellona ha segnato 147 gol in 50 partite, quindi quasi tre per volta. In Champions la media è addirittura superiore: ne ha fatti cinque a Young Boys, Stella Rossa e Benfica e quattro a Bayern e Borussia. Nei due incroci stagionali con il Real, gli ha rifilato cinque reti in Liga e quattro in Supercoppa. È una squadra che spesso esonda ma che, al contrario di quella di quindici anni fa, ha molti tratti di vulnerabilità, perché la rosa è corta e quella difesa alta lascia spazi che incoraggiano chi sa cavalcarli, e l’Inter lo sa cavalcare benissimo. Il Barcellona ha due modi per fermare gli attaccanti avversari: o con i duelli individuali o mettendoli in fuorigioco, cosa che con loro succede in media addirittura sette volte a partita. Ma magari l’ottava non riesce: Inzaghi punterà su quella.