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Walter Casagrande: “A Superga piansi e capii cos’è il Toro”

L’ex attaccante brasiliano ha scritto un articolo per spiegare il significato che ha la ricorrenza del 4 maggio per il popolo granata: “Amore e dolore infiniti”

Walter Casagrande, attaccante brasiliano che ha giocato nel Torino nei primi anni 90 (e, prima, nell’Ascoli) ha scritto per il portale Uol un articolo sul significato del 4 maggio per la gente granata e ha chiesto a Repubblica di condividerlo.

Negli anni ’40, il Torino era la colonna portante della Nazionale italiana che si stava preparando per i Mondiali del 1950 in Brasile. Fu in quel periodo, in particolare nella stagione 1942/43 — quando vinse il primo di molti titoli consecutivi — che quella squadra cominciò a essere chiamata “il Grande Torino”, o semplicemente “il Toro”.cIl 4 maggio 1949, dopo aver disputato un’amichevole contro il Benfica a Lisbona, l’aereo che riportava la squadra a casa, nella splendida Torino, si schiantò contro il muro posteriore della Basilica di Superga. Morirono tutti, all’istante. Quella tragedia sconvolse l’Italia intera, la città di Torino e, soprattutto, i tifosi del Toro. Più di 500.000 persone scesero in strada il 6 maggio per accompagnare il corteo funebre di quella squadra leggendaria.

Mio padre mi raccontava la storia del Grande Torino

Quando ero bambino, mio padre — grande tifoso di quel Toro — mi raccontava spesso quella storia. E mi è rimasta impressa nella memoria per tutta la vita. Il destino ha voluto che un giorno io indossassi proprio quella maglia granata così ricca di storia e significato. E la cosa straordinaria è che per ben tre volte stavo per trasferirmi al Torino… ma ogni volta succedeva qualcosa.

Potevo arrivare al Toro nel 1987, ma un infortunio me lo impedì

La prima volta fu nel 1987, quando giocavo nel Porto. L’allora allenatore del Toro, Luigi Radice, andò a Copenaghen per assistere a una partita di Coppa dei Campioni tra Brøndby e Porto, pronto a chiudere il mio trasferimento. Proprio quel giorno, mi ruppi tutti i legamenti della caviglia. La seconda volta fu nel 1989: questa volta a rompersi fu il legamento crociato del ginocchio sinistro.Poi, finalmente, nel 1991 arrivò il momento giusto. E fu una delle emozioni più grandi della mia carriera. Mi sono subito identificato con il club, con la sua storia, con il suo dolore, con la sua gente.

Nel Toro non si gioca solo a calcio

Lì capii che al Toro non si gioca solo a calcio: si combatte per un popolo segnato da una tragedia, fatto in gran parte di operai, che sono l’anima del tifo granata.Il momento più toccante, però, arrivò il 4 maggio 1992. Partecipammo alla messa commemorativa che ogni anno si celebra proprio lì, alla Basilica di Superga. Vedere tutta quella gente salire verso la collina, molti a piedi, con le candele in mano, fu straziante. Non riuscii a trattenere le lacrime. Nei loro volti rivedevo la storia, il dolore, la memoria viva di ciò che era accaduto.

A Superga ho capito l’amore e il dolore per il Toro

In quel momento, non ero più solo un giocatore del Torino: ero diventato un tifoso vero. Un innamorato di quel club, della sua gente, della città, dello stadio Filadelfia — dove ci allenavamo e dove, un tempo, giocava quel Torino immortale. Ogni mattina, quando arrivavo al campo, non potevo non fermarmi a guardare quel piccolo spazio dove erano conservati i resti dell’aereo di Superga. Essere un calciatore del Torino significa questo: capire tutto ciò. Comprendere il dolore profondo di una città e dei suoi tifosi. Altrimenti, quella maglia la indossi soltanto, ma non ne farai mai davvero parte. Forza Toro. Sempre.

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