Patrick Vieira, guardando le semifinali di Champions le è venuta nostalgia di quando il protagonista era lei?«Nostalgia no, mi sono anzi divertito molto: questo è il calcio, due modelli di gioco che si sfidano e fino all’ultimo non sai come finisce, come il migliore dei film».
Per chi tiferà in finale?«Sono cresciuto a Dreux, ero tifosissimo del Psg di Weah e Rai, ricordo una memorabile vittoria sul Bayern. Il mio cuore di bambino quindi dice Parigi. Ma provo tanto affetto per l’Inter, per quel gruppo bellissimo, per una persona meravigliosa come Moratti. Diciamo che sarò contento comunque finisca. Il 31 sarò là».
Chi pensa che vincerà?«Il Psg non ha più il calcio migliore del mondo ma ne fa uno arioso, bellissimo da vedere. Però l’Inter ha esperienza, furbizia, può giocare male e vincere lo stesso, accetta di essere in difficoltà. È una squadra pienamente italiana. Non scommetterei la casa su nessuna delle due».
Si immaginava una finale all’italiana?«Inter, Fiorentina e anche Lazio hanno dimostrato il livello della serie A. C’è meno talento individuale, anche rispetto ai tempi miei, ma come forza di squadra non siete secondi a nessuno. E questa Champions ha dimostrato che è il collettivo a fare la differenza: tutte e quattro le semifinaliste giocano di squadra. Anche da giocatore ho sempre ragionato più in termini di noi che di io».
Quindi si sente adatto al nostro calcio?«Nelle giovanili del Milan e poi con Juve e Inter ho capito la vostra cultura calcistica, il vostro modo di pensare calcio: al Genoa sono arrivato preparato».
Molti grandi ex giocatori quando cominciano ad allenare partono spesso da una panchina importante. Perché lei sta facendo invece un giro lungo?«Prima dovevo capire cosa volessi fare da grande, se volevo allenare per uno o due anni o per quindici. E volevo prendermi il tempo per costruirmi una credibilità, perché io voglio che mi si veda come il Patrick Vieira allenatore, non come quello che ha giocato tanti anni in grandi squadre. Quando hai un passato come il mio può essere un vantaggio all’inizio, quanto il tuo nome affascina, ma poi l’attenzione te la devi meritare giorno dopo giorno».
È partito dai ragazzi del City, poi ha allenato un’altra squadra del gruppo, il New York, quindi Nizza, Strasburgo e Crystal Palace: le basta?«Sono sempre capitato alla fine di un ciclo, in Francia societario e in Inghilterra tecnico, ma anche queste esperienze mi hanno dato molto, specie sull’aspetto manageriale. È anche grazie a quello che questi cinque mesi nel Genoa sono stati positivi, per altro con un cambio di proprietà di mezzo anche qui, nella mia prima esperienza da subentrante».
Qui se lo chiedono tutti: resterà al Genoa?«Il nuovo presidente ha le idee chiare, darà stabilità al club e io ho bisogno di lavorare per gente di cui mi fido. Ma se pensi troppo al futuro perdi la connessione col presente. Abbiamo responsabilità e obiettivi: il primo era salvarsi e lo abbiamo fatto in bella maniera, ma dobbiamo mantenere la stessa intensità e la stessa proposta di gioco fino alla fine. Parlo ogni giorno con il mio ds, ma il 98% del mio focus è sul presente».
Sente il richiamo delle grandi piazze?«Quando ho scelto questa strada l’ho fatto per arrivare il più in alto possibile, ma non ho fretta. Da giocatore avevo dei denti così, volevo sbranare tutto, ma davanti avevo Deschamps, Boghossian, Karembeu, Petit e ho imparato ad aspettare. Sono contento di quello che ho fatto finora e come diciamo anche in Francia ci sono tante strade per arrivare a Roma. Zidane ha cominciato facendo il secondo, l’importante è fare un percorso in linea con la propria personalità».
Il Genoa lo è?«L’atmosfera di Marassi mi ha fatto capire in 10 minuti che tipo di squadra la gente avrebbe voluto: il Genoa deve giocare con cuore in mano, passione, combattività, e il mio dovere è rispettare il Dna del club, la sua storia, i suoi valori, perché gli allenatori e i giocatori passano ma i tifosi restano. A me l’ambiente piace tantissimo, anche allo Strasburgo e al Crystal Palace c’era questo amore all’antica: il Genoa è vero dentro, questa passione mica ce l’hanno tutti».
Ci sono soltanto cinque allenatori neri nei principali campionati europei. Come mai?«Buona domanda e risposta difficile. Mancano le opportunità o manca l’interesse per averle? Certo, se guardi a quanti sono i calciatori di colore e quanto pochi gli allenatori vedi un’anomalia. E vale anche per dirigenti, arbitri, giornalisti. Ma da cosa dipende? Io non lo so e di sicuro non punto il dito contro il razzismo, che esiste ovunque ma non è peculiarità del calcio. Nessuno mi ha mai detto di non essere stato preso perché di colore, ma qualcuno mi ha detto: non mi hanno voluto e non so perché. Spero che il mio lavoro possa servire di ispirazione».
Chi sono i tecnici cui deve di più?«Nove anni con Wenger mi hanno cambiato la testa, ma mi ha influenzato anche Mourinho in pochi mesi e mi è piaciuto tantissimo lavorare con Mancini. Però il mio maestro è il lavoro che faccio ogni giorno».
E oggi chi le piace?«Se posso scegliere, guardo il Bologna. Mi piace tantissimo come gioca, è la squadra che mi diverte di più assieme all’Atalanta».