ROMA — L’arte della gioia è qualcosa che ci vuole anche una vita a impararla. Ed è il caso del Bologna che ci ha messo oltre mezzo secolo a costruirsi questo momento. “Ora come allora… così si gioca solo in paradiso” garantiva spavalda la spettacolare coreografia della curva rossoblù con il disegno della squadra campione d’Italia 1964 di Fulvio Bernardini – che coniò quello slogan eterno –, proprio qui nello spareggio con l’Inter, in un mare di bandierine rossoblù. E i ragazzi di Vincenzo Italiano sono stati all’altezza di un’eredità tanto pesante quanto lontana, rompendo l’incantesimo.
Bologna, il sogno Coppa Italia si realizza
Se siamo fatti della stessa materia dei sogni, come diceva il bardo, allora i bolognesi sono giganti per davvero, perché sognavano e basta da 51 anni (ultimo trofeo, una Coppa Italia vinta ancora qui ai rigori sul Palermo): non hanno fatto altro per un tempo lungo da prenderci almeno dieci lauree e dieci master in pazienza, rassegnazione e abnegazione, un’overdose letale di sogni frustrati alla quale sono invece sopravvissuti. Per questo motivo, una città apparentemente così distaccata, bonaria e pure un po’ snob, una città che si sente capitale di tutto si è invece letteralmente rincitrullita dietro a una piccola coppa trasformandola in una Champions League.
Esodo bolognese a Roma
Trentamila bolognesi in movimento non si erano mai visti, di sicuro non per il pallone neanche ai tempi dello scudetto, forse solo per la politica in epoche ormai perdute. Un esodo biblico – con tanti anziani reduci del 1964 portati da figli e nipoti in pellegrinaggio tipo Lourdes –, una migrazione da Eurovision con Morandi, Cremonini, Carboni, Poggipolllini e pure Laura Pausini di rinforzo, tutti al seguito di un Mosè siciliano, testardo e incendiario, che il giorno prima aveva commosso la città interpretandone, davanti al presidente della Repubblica, tutta la frenetica infantile e incontenibile eccitazione. Più felice di un bolognese forse poteva esserci solo lui, Vincenzo Italiano, ieri sera all’Olimpico in trionfo sotto la curva, perché se per i tifosi è questione di onore, passione e orgoglio, per l’allenatore lo era anche di pregiudizio e professione: l’orangotango della quarta finale consecutiva perduta era una tonnellata sulle spalle da scaricare, l’odiosa etichetta di perdente sarebbe diventata un tatuaggio in caso di sconfitta, e poi hai voglia di scartavetrare col laser.
Thiago Motta è solo un ricordo
Vincenzo da Ribera, il paese di Francesco Crispi in provincia di Agrigento, ha vinto quella più difficile, quella sulla quale nessuno avrebbe mai scommesso l’estate scorsa quando prese il posto di Thiago Motta, convinto lui come tutti che sarebbe stato impossibile ripetere la scorsa stagione e figuriamoci poi fare addirittura meglio, com’è invece meravigliosamente riuscito. Italiano ha trasformato in storia e favola quanto gli ha messo a disposizione un club di anglosassone romanesca pazienza, e cioè una squadra di giocatori bravi ma soprattutto seri e perbene, scelti da Giovanni Sartori, l’uomo che non sbaglia un miracolo, e Marco Di Vaio.
La forza della società del Bologna
Artefice del tutto un atipico proprietario italocanadese, Joey Saputo, anche lui originario siculo, dall’aplomb british, allergico proprio alla vetrina, forse il presidente più schivo e meno egoriferito nella storia del calcio, mica solo del Bologna. E con lui il suo fidatissimo Virgilio nei gironi infernali dell’oscurissima selva del pallone, Claudio Fenucci da Roma Nord, 65enne manager dalla inossidabile perseveranza tra i più stimati del panorama. Ci hanno messo dieci anni come promesso per rimettere il Bologna al suo posto, non senza traversie (come la malattia di Sinisa Mihajlovic), al centro esatto della musica.