Come quelle dei Grand Hotel, sceglie l’ultima che trova ancora aperta. Antonio Conte è l’uomo delle porte girevoli. Uscire o tornare dentro, forse neanche lui lo sa, ma nessuno deve capire né pensare che sia indeciso, mai concedersi il vantaggio della meditazione, scegliere riflettendo, sarebbe la fine del suo personaggio, si è dato quello più simile al suo gioco. Tutto strappi e assalti. Domandano tutti se lascia Napoli o se ne va, magari a Torino, per tornare nella Juve dei suoi trionfi e del più velenoso addio. Tace. Vuol sembrare di ghiaccio, lascia il dubbio ai fragili, l’emozione agli uomini che sanno anche perdere, quando si vanta che le sconfitte gli hanno lasciato una scorza dura, «fino a farmi diventare cattivo». Toni da western, perché?
Non gli credete, è teso come le corde di una chitarra appena riparata dai liutai di via San Sebastiano, la strada della musica, vicino al Conservatorio nella Napoli antica che gli piace esplorare con Elisabetta, la moglie sensibile come sa essere una giovane siciliana salita a Torino, la stessa che descrivono molto turbata, stretta alla signora De Laurentiis dopo il più infausto dei pareggi, 2-2 con il Genoa. Antonio no, nella sua studiata freddezza anche ieri si legge la nostalgia del futuro, da domani dovrà pur decidere, che dire al presidente, dove andare, che cosa chiedere per rimanere a Napoli, come convincere la famiglia a lasciare la quieta eleganza del quartiere Chiaia? Non c’è nulla di più gelido e distante che dire «dobbiamo solo completare il lavoro». No, Conte dice ma non pensa questo. Lui che fino all’altro giorno, portato dalla retorica in fuorigioco, diceva di sentirsi ai confini della storia. Da un eccesso all’altro il più emotivo dei duri. No, non è un lavoro, portare in cima all’Italia del calcio una città in amore, nell’aristocrazia di uno sport una compagnia senza leader, miti né divi, onesti professionisti aggrappati tutti insieme ad un sogno. All’orgoglio di un collettivo. Alle suggestioni di una conquista resa possibile dal comune sentire della grande impresa. Questo scudetto così vicino lo è, e pone oggi Antonio Conte davanti ad una scelta difficile. Entro o esco, già le porte girevoli. Lo scudetto 2025, il secondo nel giro di tre anni, porta il Napoli dei bilanci in ordine, del margine operativo lordo alto per prendere chi vuole, ha infatti preso Conte, e far diventare famoso Sarri, ingaggiare la star delle panchine Ancelotti, far vincere in Italia anche Spalletti. Non sfugge che rischia di mollare ad Aurelio De Laurentiis lo scudetto un club di prestigio euromondiale guidata da un presidente delegato dall’americana Oaktree, specializzata per soccorsi finanziari, la stessa Inter che ha pagato i finanziamenti al 12% anche a indonesiani e cinesi. Non si capisce neanche perché i tifosi siano rammaricati dal possibile trasbordo di Conte alla Juve.
Il Napoli sta per vincere il secondo scudetto in tre anni, la Juve è in lenta rifondazione, due titoli ravvicinati all’inizio degli anni 2000 li ha dovuti restituire. Ci penserà anche Conte, che cosa il Napoli ha meno di altri?
Non è facile neanche rimanere. Conte sa di aver portato la squadra ad un traguardo inimmaginato senza Osimhen e Kvara, appesantita dal modesto bilancio del suo più anziano e costoso attaccante, il gentiluomo dal passo felpato Lukaku, con tenuta fisica limitata da una serie di infortuni muscolari oltre che dall’età media, sette ultratrentenni.
Ma è la squadra che sta per concludere non un lavoro, ma un capolavoro rarissimo di passione e fatica, forse irripetibile. È per questo che avrà da Napoli il più affettuoso, lungo, caloroso applauso che si ricordi nello stadio chiamato Maradona. Di questi magnifici gregari è fiero lassù anche Diego.