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Per il football la Palestina esiste. Il ct: “Così ci hanno scippato la qualificazione al mondiale”

La sconfitta con l’Oman per un rigore contestato. “Giocavamo per un popolo che ci guardava in tv, nelle tende, sotto le bombe”

Ehab Abu Jazar è nato a Khan Younis e cresciuto tra la sua città natale e Rafah, all’ombra dell’omonimo valico che rappresenta o, meglio, rappresentava, l’unica porta aperta tra la Palestina e l’Egitto. Un varco diventato invalicabile anche per gli aiuti umanitari. Ed è proprio la situazione nell’estremo sud della Striscia di Gaza che il commissario tecnico palestinese non riusciva a levarsi dalla testa durante il ritiro in Giordania, dove la sua nazionale ha pareggiato e, quindi, perso, a causa di un rigore inesistente, la gara contro l’Oman. È svanito così, nel più doloroso dei modi, il sogno Mondiale di un intero popolo.

Come siete riusciti a concentrarvi sul campo?

“Non è semplice da raccontare. Ero in ritiro mentre mia madre, i miei fratelli e le loro famiglie erano sfollati a Khan Younis e vivevano in una tenda. Si sono riuniti per guardare le nostre partite grazie a dei pannelli solari”.

Cosa ha detto ai suoi giocatori al fischio finale?

“Il modo in cui abbiamo perso è stato assurdo. Un rigore che ha visto solo l’arbitro che non è andato a rivederlo al VAR… Perché? Tutto questo ha lasciato alla nostra gente un enorme senso di ingiustizia. In momenti del genere non c’è molto da dire ai tuoi giocatori, solo che sappiano che stavano per fare la storia e che prima o poi la scriveremo. È una squadra giovane, una generazione d’oro per il calcio palestinese”.

Anche per loro non dev’essere stato semplice.

“Mentre si allenavano e giocavano, i loro parenti erano sotto i bombardamenti a Gaza, altri nei campi profughi in Libano e in Cisgiordania, mentre l’occupazione israeliana assediava città come Nablus, Ramallah, Betlemme e Gerusalemme, da dove provengono alcuni di loro. Eppure, sopra ogni cosa, siamo riusciti a rappresentare la Palestina giocando a calcio, a trasmettere un messaggio positivo di resilienza, della nostra esistenza”.

Dove avete trovato la forza per andare avanti?

“Abbiamo forse un’alternativa? È così che la nostra gente viene trattata dal 1948. La Federazione ha denunciato questi crimini e le violazioni degli statuti FIFA, ma finora nessuno ha agito. Ci aspetteremmo maggiore solidarietà dal mondo dello sport. Ma in assenza delle istituzioni, abbiamo dalla nostra parte molti calciatori e migliaia di tifosi che sventolano bandiere palestinesi negli stadi. Sappiamo di non essere soli”.

Per 90 minuti, la Palestina si è fermata e i protagonisti principali di questa “tregua” eravate voi.

“Ciò che mi addolora di più è quanto la nostra gente si fosse emozionata di gioia per una partita di calcio dopo tanto dolore. Ma eccoci qui, di nuovo in piedi, perché sappiamo cosa rappresentiamo”.

Avete cercato di isolarvi o le notizie che arrivavano da Gaza sono diventate una motivazione più profonda per lottare per qualcosa che va oltre il calcio?

“Siamo professionisti ed eravamo concentrati come lo sarebbe stata qualsiasi altra nazionale. Ma siamo anche esseri umani. Come pensa che possa sentirmi quando vengo a sapere che ci sono bombardamenti vicino alla tenda di mia madre? Tuttavia, mi lasci dire una cosa: un filosofo tedesco una volta ha detto “ciò che non ti uccide ti rende più forte”. Ed è così che mi sento. Supereremo anche questo”.

Sono state uccise migliaia di persone. Lei o qualche membro della squadra ha perso familiari o amici?

“Non troverà nessuno a Gaza che non abbia perso un parente o un amico. Ora il mio pensiero è uno solo: cercare di salvare mia madre e i miei fratelli”.

Abbiamo tutti visto immagini strazianti di bambini. In mezzo a tanto orrore, c’è ancora spazio per il perdono?

“Giochiamo per i bambini della Palestina, ma anche per gli anziani che probabilmente non avrebbero mai immaginato di vedere una nazionale riconosciuta competere per andare al Mondiale. Nessuno è stato risparmiato. Non si tratta di perdono, ma di giustizia. Una volta che ci sarà giustizia, tutti potremo raggiungere la pace. Una volta che anche io, palestinese, sarò visto come un essere umano con gli stessi diritti degli altri, vivremo tutti in pace”.

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