PONTE DI LEGNO (BRESCIA) — Difensore vecchia scuola, Fabio Pisacane in campo era un pitbull. Il soprannome “Pisadog” glielo hanno dato alla Ternana, ma la sua vita nel calcio è legata al Cagliari. Dopo averci giocato per sei stagioni, fra serie B e serie A, ha allenato le giovanili e vinto la Coppa Italia primavera. Il presidente Tommaso Giulini allora lo ha voluto come allenatore della prima squadra, al posto di Davide Nicola.
Pisacane, a 39 anni, che effetto fa allenare i propri ex compagni?
«Ce ne sono ancora cinque: Rog, Zappa, Marin, Deiola e Pavoletti. Al bar per loro sono Fabio, ma in campo mi chiamano mister, ci tengo».
Dell’esperienza alla guida della Primavera, cosa porta con sé?
«Alcuni giocatori, la cultura del lavoro, tanti insegnamenti. Ho sbagliato, sono cresciuto, ho studiato. Non bastano tecnica e tattica. Grazie a un incontro che ho fatto durante una vacanza a Ibiza, mi sono chiesto: quanto conosco davvero i ragazzi che alleno? Con l’aiuto di uno psicologo, ho iniziato a studiare a fondo la Generazione Z. È stato prezioso».
Come ci si comporta con chi è nato fra la fine degli anni 90 e il primo decennio 2000?
«Quando avevo vent’anni, se l’allenatore parlava per mezz’ora lo ascoltavo. Oggi hanno un tempo di attenzione breve. Organizzano i pensieri per immagini. Reagiscono meglio ai premi che ai rimproveri».
Lo dice anche Claudio Ranieri.
«All’inizio avevo timore della sua esperienza e della magia che lo circonda. Quando ho vinto la Coppa Italia con la Primavera mi ha mandato un messaggio. Purtroppo il telefono mi è finito in acqua, ma ricordo la frase finale: Ad maiora semper».
Lei, Chivu, Cuesta, lo scorso anno Fabregas. I presidenti hanno finalmente coraggio?
«Sì, e noi una grande responsabilità. Se dovessimo fallire, difficilmente nei prossimi anni sarà data la stessa possibilità ad altri giovani».
Nella lotta per la salvezza dovrà vedersela con Davide Nicola, suo predecessore al Cagliari.
«Eravamo compagni a Lumezzane. Ero un ragazzo, mi ha accolto nella sua famiglia. Poi l’ho avuto come allenatore e mi ha salvato: un direttore sportivo in Lega Pro mi propose di vendermi una partita, lui mi consigliò di denunciare».
Come reagì il mondo del calcio?
«Mi contattò la Fifa. Prandelli mi invitò in ritiro con la Nazionale. A tavola con Buffon, Pirlo e Di Natale mi sentivo in un reality show».
Passano gli anni, eppure ci sono ancora giocatori che scommettono. Come se ne esce?
«Hanno tutto ma sono fragili. E intorno a loro orbitano figure non belle. I club oggi fanno di tutto per metterli in guardia, ma non è facile».
Come se l’è procurata quella cicatrice sotto l’occhio?
«È stato il parafango di un carretto delle granite. Avevo sei anni, giocavo a calcio per strada nei Quartieri Spagnoli di Napoli dove sono cresciuto. Correvo dietro a un pallone, sono stato investito».
A tredici anni, la malattia.
«Sindrome di Guillain-Barré. Ero nelle giovanili del Genoa. Rimasi paralizzato dal collo in giù, non respiravo, andai in coma. Mi dissero che non avrei più giocato a calcio, invece è stata la mia vita. Ancora oggi collaboro con Telethon. I medici mi hanno dato una seconda vita».
Poi Cagliari l’ha adottata.
«Voglio consolidare nella squadra i valori di un popolo unico, che ha fatto sentire a casa me e la mia famiglia: etica del lavoro, rispetto, umiltà, discrezione. I valori di Gigi Riva. Cagliari era nel mio destino: il mio unico gol in carriera è anche l’ultimo segnato al Sant’Elia, prima della chiusura. E oggi il terzo dei miei quattro figli, Matias, mi insegna filastrocche in lingua sarda».
Come mai il nome Matias?
«Lo hanno scelto i suoi fratelli con mia moglie Maria Rosaria. Il quarto avrei voluto chiamarlo Gabriel come Batigol, mio idolo, ma alla fine l’ho chiamato Marco, come un fratello che ho perso da piccolo. E abbiamo chiamato il cane Batistuta».
Lo ha conosciuto, Batigol?
«Mi ha mandato un video per farmi forza dopo un infortunio. Avevo già 35 anni, ma che emozione».
Ne aveva 30 quando esordì in Serie A.
«Non è mai troppo tardi. Non pensavo che ce l’avrei fatta, ma inconsciamente ho sempre lottato per arrivare a quel momento. Per migliorarsi, bisogna crederci».