Un momento. Riarrotolate il rosso tappeto steso davanti all’invasore, eliminator di dissidenti; spegnete quell’eco insopportabile che arriva dall’America e girate ancor di più lo sguardo da quel mare vostrum in cui affondano speranze. Lasciate che si svuotino le spiagge più d’oro che dorate, seppellite i divi della televisione e smettetela di farvi gli affari loro; uscite dalle case, dalle chat, da questi corpi stremati dal calore: comincia il campionato.
Vincere sarà tutto, a nord o a sud, a est o a ovest. Fate tacere quel dirigente che disse: a loro lo scudetto, a noi la Champions. Non siamo allievi di von Clausewitz, per punti forti la perdiamo. Ci piace invece Sun Tzu: vincere senza confrontarci, per due gol d’un Pedro che gioca conto terzi, per la pioggia a Perugia, mentre gli altri riposano in albergo, hanno incubi nella fatal Verona o un giorno di maggio che dirvi non so.
Non dite mai più che il calcio, questo calcio, è metafora della vita. È la vita che si trucca male per assomigliargli. È la politica che ha preso le stesse logiche di un derby, tutte le ragioni dalla stessa parte, a prescindere. È l’amore che si è concesso le stesse inversioni a U: anni a sgolarsi maledicendo Gasp per finire ad abbracciarlo come potesse, lui, cambiarti il destino, o riabbracciare Max come non l’avessi cacciato di casa appendendo alla porta il cartello “Mai più” o ancora fingere di amare chiunque, o Chivu.
Dite ai vostri figli, o nipoti, che cianciano di Premier, che passano il tempo guardando sui cellulari gli highlights di Arsenal-Nottingham Forest, che non è lì che si muore di passione. E se non si muore, che s’è vissuto a fare? Bisogna andare in trasferta a Cremona o a Lecce, con mezzi di sfortuna; bisogna imprecare contro un abbonamento tanto costoso quanto lento che ti mostra Leao in surplace, immobile Achille mentre sfreccia la tartaruga. La Premier coglie (Cala)fiori appena sbocciati nel nostro giardino, ma non sa poi dove metterli, né casa né Chiesa. È qui la festa. Puoi farla anche se arrivi quarto, perfino se ti qualifichi per la Conference, che è come andare in vacanza a Chisinau e tornare dicendo «ho visto orienti magici» e tutti quelli che non applaudivano solo invidia e ipocrisia.
Offuscate tutte le stelle perché la luce che trasmettono è quella di un altro tempo, di un altro luogo, ha viaggiato nella memoria per restare un barlume: memento Modric. Se ne nascerà una nuova, godetevela, perché non starà lì a farvi guardare e l’anno che verrà brillerà in un altro firmamento.
Provate a immaginare che vinca un Cagliari, che sarebbe stata (ma non più) un’Atalanta, che sarebbe (forse) un Como. Più facile immaginare tutta la gente vivere la vita in pace, che il mondo sia uno solo, ma siano possibili due Stati. E nessuna retrocessione anziché tre.
Tifate per la squadra del vostro cuore, che sarà poi della città dove siete nati, come innamorarsi della ragazza che abitava sul pianerottolo. Se volete un consiglio, auguratevi la vittoria del cavallo scosso, quello che arriva al traguardo del palio senza fantino. Dopo tutta questo can-can sugli uomini forti, questo manducar di volitive mascelle, siamo arrivati all’antonomasia, al nome dell’allenatore per indicare la squadra: “Conte non va oltre il pareggio”, “Sarri espugna Pisa”. E non è perché sia più corto e facile da inserire nei titoli, ma perché ci mettono la faccia e non la tolgono, vincolati a conferenze stampa pre-partita e quattro interviste dopo; perché urlano da bordo campo per novanta minuti muovendo giocatori come pedine; perché sono profezie che si auto-avverano per mezzo di “quinti di centrocampo” o “sottopunte” e l’ultimo chiuda il vocabolario. E chiuda il mercato, soave pestilenza, perché da questo momento (e una settimana) nessuno servirà più a nessuno, né un portiere di riserva, né un prospetto in difesa, niente va più, il gioco è fatto, resta da fare il campionato.