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La maglia che spegne il mito del Borussia romantico

Quella vista contro l’Heidenheim non era solo la più brutta del campionato. Era crudele, per un club che dieci anni fa si presentava dicendo: i nostri tifosi non vogliono essere clienti, loro vogliono essere noi. Figurarsi se quella società poteva immaginare di sbiadire il giallo e di sfumare il nero. Invece l’ha fatto

Amiamo solo la maglia. Così dicono i più puri fra gli ultrà di mezzo mondo, soprattutto quando un centravanti volta le spalle e se ne va, quando le categorie della fedeltà e del tradimento pretendono di essere prese in considerazione in questo gioco così cambiato. Amiamo solo la maglia ma dipende. Prima capiamoci: quale maglia.

Non quella che i tifosi del Borussia Dortmund hanno visto in campo nell’ultima partita di campionato. Quella è stata das grausamste Trikot der Liga, la più brutta del campionato, dove l’aggettivo tedesco grausam sta per orribile ma in certi casi anche per crudele.

È in questa sfumatura linguistica che la storia diventa interessante. Una maglia brutta puoi denigrarla ma volerle sempre un po’ di bene. Una maglia crudele no. Se una maglia è crudele infligge un tormento come fanno gli aguzzini. La crudeltà non conosce compassione. E quella vista con l’Heidenheim – diamine – crudele era per davvero.

Il club si è vantato di averla fatta realizzare in tessuto ultraleggero, progettato per ridurre il peso e l’attrito. È traspirante, prodotta per il 95% con scarti tessili riciclati e altri materiali in poliestere, un passo significativo – dice il Borussia – verso la sostenibilità.

Va bene. Va tutto bene. Ma non è questo il punto. Il punto sono i colori. Che fine ha fatto il nero? Del loro schwarz-gelbe al Borussia vanno fieri. Giallo è il muro del tifo in curva, neri i risvolti sulla maglia. Ora su quella per le trasferte il giallo è diventato un neon e dietro la schiena è sbucato il grigio. L’orrore. Anzi: la crudeltà.

È crudeltà perché Dortmund non è mai stato un posto uguale agli altri, non è come vedere il Napoli in mimetica o l’Inter vestita di Sprite. Dortmund è il posto dove una decina d’anni fa l’a.d. Hans-Joachim Watzke diceva quel che una curva ama sentirsi dire: «I nostri tifosi non vogliono essere clienti. Loro vogliono essere noi». Dove noi voleva dire decidere insieme. «Se un giorno arrivasse un petroliere arabo o un magnate russo, gli risponderei: no, grazie. Con una proprietà di quel tipo diventerebbero dei clienti».

Il Borussia è quel club che una volta rinunciò all’idea di aumentare il prezzo di un boccale di birra da 3 euro e 70 a 3 euro e 80. Lo avevano chiesto i ristoratori «ci dicevano: tanto non fa differenza. Ma se non fa differenza: perché dovremmo aumentarlo? Per scontentare la gente?». Figuriamoci se quel Borussia poteva immaginare di sbiadire il giallo e di sfumare il nero.

E invece eccoci qua. Non sono arrivati gli arabi, non sono arrivati i russi, ma qualcosa succede nella stanza delle grandi decisioni. Watzke lascerà in autunno, si candiderà alle elezioni per la presidenza di novembre. È amico personale del cancelliere Merz, un cristiano-democratico senza misteri. Confida in una successione coerente con la sua linea: inserire nelle gerarchie persone cresciute nel club. Quelli che lo denigrano, la chiamano la politica dello Stallegeruch: l’odore della stalla. Una poltrona andrà a Lars Ricken, il calciatore più giovane ad aver giocato una partita ufficiale per il club, la sua faccia è stata per anni sulla parete più grande della tribuna sud. Il suo primo regalo di Natale fu una maglia del Borussia [ehm]. L’altra guida è Carsten Cramer, viene dall’era marketing. Con la Neue Zürcher Zeitung una volta si è lamentato del fatto che il calcio ha ancora «molto a che fare con la storia, i rituali, la tradizione. In Formula 1 si guarda meno al passato. Noi dobbiamo trovare il modo per crescere. Il nostro concorrente non è il Real Madrid, ma Netflix. Dobbiamo trovare nuovi modi perché i ragazzi si interessino al calcio».

È il ritornello che si sente ripetere da tanto e ovunque. Ma – diamine – a Dortmund no. Dortmund era il regno sentimentale di Jürgen Klopp, più idealista di Fichte, più romantico di Schlegel. In panchina ora siede Nico Kovac, da sette mesi il suo pragmatismo è diventato il tratto distintivo del gioco della squadra. Missione numero uno: evitare errori. Missione numero due: equilibrio, costanza, nessuno svolazzo. Pazienza, si erano detti i tifosi. Un allenatore va, un altro viene. Un centravanti ci lascia, un altro arriva. È il calcio, che ci vuoi fare. Amiamo solo la maglia. Ecco. Adesso gli hanno cambiato pure quella.

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