L’ultima cosa da fare nel calcio per continuare a vivere sereni è farsi venire un’idea. Un’idea nuova. Una qualunque idea nuova. Meglio di no. Si rischia di passare per il matto del villaggio. Il calcio è quel posto dove ti ripetono ogni maledetta domenica che si è sempre fatto così, perché adesso vuoi cambiare? Hai voglia a insistere e a mostrare l’evidenza. Hai voglia di spiegare che pure il trapianto di cuore non si era mai fatto prima di Christiaan Barnard. Addirittura la prima volta andò male, il paziente morì, Barnard venne accusato di voler giocare a fare Dio, ma per fortuna non si fermò, tirò dritto, e adesso siamo dove siamo. Ecco. Col tempo, piano piano – lentamente – un trapianto di cuore, le stazioni spaziali, la fecondazione artificiale sono stati anche presi in considerazione, ma se Luis Enrique decide di guardare il primo tempo delle partita della sua squadra dalla tribuna e non dalla panchina, eccolo là lo sguardo diffidente: lo trattiamo come quel personaggio di Tornatore che si aggira per il paese e mormora “la piazza è mia, la piazza è mia”.
Eppure Luis Enrique è una personalità riconosciuta. Ha vinto due Champions League con due squadre diverse. L’unico a riuscirci a Barcellona dopo Cruyff e Guardiola, il primo in assoluto nella storia del calcio parigino. È un rigoroso. Un workaholic. Francesco Farioli ha detto in una intervista con Paolo Condò per il Corriere della sera che una volta il suo Nizza stava per battere un calcio di punizione con uno schema che avevano provato una volta sola in amichevole, e Luis Enrique dalla sua panchina urlò alla squadra come piazzarsi. Lo conosceva. Lo aveva visto. Ora, se un tipo così decide che guardare il primo tempo di una partita dalla tribuna gli sia più utile, dovremmo incuriosirci, provare a capire, tendere a fidarci. Ci troverà qualcosa. Nossignore invece. È un divergente. È un eretico. La piazza è sua. Non ne parliamo di chi spinge addirittura la propria audacia verso l’uso di un linguaggio nuovo. Se ti passa per la testa di citare “i quinti” di centrocampo, sei da deridere. Se ti scappa “calcio relazionale” sei pronto per il rogo in Campo de’ Fiori come Giordano Bruno, non il centravanti, l’altro. Se vengono fuori “i braccetti”, c’è chi si domanda dove siano più i Gianni Brera di una volta. Solo che i Gianni Brera di una volta, questo facevano. Indignavano. Rompevano schemi. Davano aria alle stanze. I termini che i conservatori oggi vorrebbero difendere non ci sarebbero se qualcuno non avesse scandalizzato i suoi contemporanei. Gli archivi dei giornali per i quali ha lavorato Brera sono pieni di lettori che gli chiedevano: ma come parli?È il destino che tocca a chi bazzica il calcio.
Il fuorigioco era guardato con sospetto
Mezzo secolo fa era guardata con sospetto la tattica del fuorigioco. La vedevamo praticare soprattutto ai belgi e agli olandesi nelle Coppe. Poteva funzionare dieci, quindici, venti volte in una partita, ma se un’azione – un’azione sola – metteva un attaccante davanti al portiere, tutta la biologica diffidenza dei calciomani verso l’innovazione riprendeva fiato. Del resto siamo quelli che se una partita finisce 0-0 pensiamo che manchi la qualità, che il nostro calcio sia troppo prudente, arretrato, non ci sono più i campioni di una volta; ma se la partita successiva finisce 4-3 guardiamo gli errori, il terzino che ha sbagliato la diagonale, ci chiediamo come mai non si difenda più come ai bei tempi, si sa che sono le difese a farti vincere i campionati. Ora. Non è che fuori dal calcio ci sia tutto questo sincero trasporto per chi dedica la vita al progresso. È stato così nei secoli dei secoli. Sul finire del Quattrocento il monaco Giovanni Tritemio se la prese con quel tipografo tedesco che aveva inventato una tecnica per stampare i caratteri e dar vita ai libri. Il religioso scosse il capo, dove andremo a finire – pensò – e buttò giù un elogio degli amanuensi e delle pergamene, arrivato però fino a noi proprio grazie all’idea di quel Gutenberg, L’invenzione del telefono si meritò un editoriale furioso del New York Times. Il walkman era il diavolo degli anni Ottanta perché isolava dal mondo e lo smartphone è il diavolo contemporaneo perché al contrario sei sempre connesso. Ma nel calcio tutta questa resistenza ha una forza superiore. Lo stanno scoprendo quegli allenatori che si ispirano ai principi del rugby e che imitano il calcio in touche, chiedendo ai loro calciatori di scaraventare la palla in fallo laterale, laggiù, verso la porta avversaria, e poi correre a pressare. Il vantaggio: sei più vicino al gol. In Inghilterra si vanno alzando le prime voci irritate: così si stravolge il gioco. Certo che si stravolge. Se non avessimo stravolto il modo di abitare, avremmo la nostre residenze sulle palafitte.
La tattica del Psg: il calcio d’inizio in fallo laterale
Ovviamente non tutte le novità portano a un passo avanti, ma tutti gli esperimenti generano un pensiero. Luis Enrique – sempre lui, maledizione – ogni tanto fa tirare in fallo laterale addirittura la palla al centro, la prima azione di una partita. L’ha fatto perfino nella finale di Champions. Come per il trapianto di Barnard, i primi che ci provarono andarono a sbattere contro il fallimento. Andy Gray, nazionale inglese, si attorcigliò con i piedi nella palla, finì per regalarla ai polacchi e quelli filarono dritti verso il portiere. Nulla di diverso rispetto a quanto accade oggi proprio a quei numeri 1 chiamati a far nascere il gioco, la famosa costruzione dal basso che siamo più disposti a criticare in quell’occasione maldestra che ad apprezzare nelle sue manifestazioni virtuose. Non è adatta a ogni situazione di gioco, non è consigliabile ai piedi di ogni portiere, ma respingerla ideologicamente è solo un altro segno di quella tipica resistenza del calcio al cambiamento. I chirurghi operano con i robot, alcuni dei migliori pizzaioli napoletani hanno il forno elettrico, ma i portieri non devono giocare con i piedi. Non è curioso, tutto questo?