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Addio a Eriksson, l’ultimo trofeo blucerchiato porta la sua firma. Ecco come lo ricordano i suoi giocatori alla Sampdoria

Grande allenatore, uomo squisito, cittadino del mondo. Un vincente con stile, straordinario anche nell’affrontare la malattia. A maggio la sua ultima volta a Marassi. Una commovente ed emozionante rimpatriata

“Tack Sven”, ovvero grazie in svedese, lo striscione nei Distinti in occasione del suo ritorno a Genova del 5 maggio 2024 per il saluto prima di Sampdoria-Reggiana diventa ora un sentimento. Sven Goran Eriksson, morto a 76 anni, è sempre stato considerato un autentico signore, non solo nel calcio, ma anche è soprattutto nella vita. Sapeva farsi seguire e voler bene senza mai alzare la voce, con la forza delle idee e delle buone maniere. Era di un’educazione eccezionale e squisito a livello comportamentale. Per questo, ovunque sia andato, è stato benvoluto, prima come persona e poi come tecnico.

A Genova è arrivato dopo la sconfitta di Wembley, ma l’accordo era stato definito da sei mesi. Pensava di poter allenare Vialli e Mancini e invece il primo si vestì di bianconero. Restò cinque anni, valorizzando tanti giovani che poi hanno fatto la storia del calcio. Fortissimo fu il suo rapporto con Mancini, non a caso andarono insieme alla Lazio per aprire un altro storico ciclo. Eriksson aiutava molto, a livello tecnico e psicologico, soprattutto gli stranieri più giovani, tipo Seedorf o Veron, e dava loro possibilità di sbagliare, ma regalava anche consigli sulla cultura italiana, non solo calcistica.

«Questi insegnamenti mi hanno accompagnato nella vita» ha spiegato proprio Seedorf, che ha raccontato un esempio di Sven per aiutarlo a capire quanto fosse importante sapersi adattare. «A volte bisogna fare in campo quello che si aspettano da te, anche se pensi che non siano le scelte giuste. Mi diceva che il mio modo di giocare era più vicino all’architetto, ma questo non vuol dire che non si può fare o capire il ruolo in campo del muratore. La gente, chi si alza la mattina presto, suda e fatica, si identifica più con il lavoro del muratore, fatto di pressing e di corsa, che con chi disegna il progetto. Eriksson mi chiese di fare qualche rincorsa in più, perché sarebbe stata apprezzata da pubblico e compagni, anche se serviva poco dal punto di vista pratico. Nel calcio, come nella vita, conta anche la cultura di un paese ed il gusto della gente».

Fu l’ultimo tecnico blucerchiato a vincere un trofeo, la Coppa Italia del 1994 e si ricorda il suo volto felice in campo, rideva senza pudori per la contentezza. Era un finto freddo. Scherzando, come ha raccontato il suo secondo, Luciano Spinosi, molti gli dicevano che fosse più napoletano che svedese. Questo insieme di componenti rendeva il suo stile veramente unico. Non si arrabbiava mai, non si ricorda di averlo visto urlare, al massimo alzava la voce e diventava subito rosso. Sembrava quasi avesse timore di non essere se stesso. Era lontano dallo stereotipo del tecnico “sergente di ferro”. Quando i giocatori lo chiamavano “mister”, ha raccontato uno dei suoi pupilli, Attilio Lombardo, diventava sempre rosso, per una sua naturale timidezza, che non va, però, confusa con mancanza di personalità. Sven sapeva prendere decisioni forti, ma con guanto di velluto. A Genova si era trovato a gestire una situazione non banale, non era facile sostituire Boskov, per molti giocatori un secondo padre, ma lo svedese si fece subito apprezzare per le qualità umane, non solo per le doti tecniche già dimostrate con Benfica, Roma e Fiorentina dopo gli inizi con l’Ifk Goteborg, capace di vincere la Coppa Uefa. Fu bravo a mantenere equilibri consolidati e non era scontato. Non ci tu trauma e fu sempre bravo a valorizzare il gruppo a disposizione. Il motivo lo ha spiegato, con la solita lucidità, ancora Seedorf: «Era davvero molto simpatico, riusciva a dare il giusto peso alle cose. Incarnava lo spirito del club, era l’erede ideale di Vujadin Boskov».

Sven, con l’aumentare dell’esperienza, aveva saputo evolversi. Arrivato in Italia con l’etichetta di tattico con un approccio severo, è riuscito a diventare anche un eccellente gestore grazie al suo carattere gentile, ma determinato. La sua bravura è stata convincere i campioni a osservare le sue regole e i suoi principi di gioco, il segreto di ogni grande tecnico, allenare, prima di tutto, la “testa” dei suoi ragazzi e creare empatia. L’ autorevolezza nasceva anche da una profonda conoscenza del mestiere, che si esaltava nella capacità di gestire molto bene la preparazione della gara. Il calcio stava cominciando a cambiare dopo l’arrivo di Sacchi, ma Sven cercava di valorizzare le qualità del singolo giocatore all’interno della sua filosofia di gioco. Al centro c’era sempre il calciatore e le sue qualità, che sapeva esaltare, anche cambiando il ruolo in campo ai protagonisti, come è capitato, ad esempio, con Sinisa Mihajlovic, che è poi diventato uno dei “suoi” giocatori. Non ha mai avuto problemi nella gestione dei gruppi e nemmeno con singoli giocatori di grande personalità. La sua strategia l’ha spiegata Attilio Lombardo, in occasione del ritorno per il commovente saluto a Sven contro la Reggiana, voluto dal presidente Matteo Manfredi: «Ha sempre messo il gruppo al primo posto. Era bravissimo a insegnare a giocatori, anche importanti, a mettere prima il “noi” e poi “l’io”. Non è facile, ma riusciva a conquistare tutti con i suoi modi e la sua competenza».

Lo scudetto del 2000, conquistato con la Lazio, fece contenta mezza Italia, che aspettava il giusto riconoscimento per un tecnico, talvolta definito, non senza un’inutile cattiveria: “perdente di successo”. Sarebbe stato meglio definirlo un “vincente con classe”. A Genova dimostrò il suo amore per il gioco, che poi lo spinse, in seguito, a insegnare ovunque nel mondo e trasmettere a tutti questo suo approccio di genuina riconoscenza verso il pallone, di consapevolezza di essere un privilegiato. Era un innamorato, in generale, dello sport, in particolare del tennis. Erano interminabili le sue partite, in cui finiva per irretire anche avversari di maggior classe. Piace ricordare il suo classico intercalare: “Tutto bene”, a volte una domanda, spesso uno stato d’animo di un uomo e un tecnico che vedeva soluzioni e non problemi. “Tack Sven”.

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