L’era della pay tv, del calcio spalmato in giorni e orari diversi, lo aveva già fatto diventare un pianerottolo, sia pur suggestivo, dell’immenso edificio del pianeta calcio e tv. Da oggi Novantesimo minuto vivrà solo di ricordi. La Rai lo terrà in piedi sabato e lunedì sera, ma della trasmissione che ha segnato un’epoca di sport e società, quella della domenica pomeriggio, non resterà nulla. Un highlander che ci lascia dopo essere sopravvissuto ai diritti tv passati a Mediaset, quando fu capace di rigenerarsi anche con la sola Serie B al punto da farla sembrare il campionato più bello del mondo. In onda, persino quando i tecnici, scioperanti inamovibili, non avevano fatto arrivare in redazione nemmeno un’immagine. Successe due volte, nel 1975 e nel 1987, eppure andò in onda, con le partite raccontate come una favola illustrata da qualche foto presa qua e là.
La resa al calcio spezzatino
Alla fine però Novantesimo si è arreso. Piegato dalla mancanza del suo carburante, il calcio. Una partita dalle 12,30, una o due alle 15, e spesso neanche di primo livello. E con l’aggravante di un’altra, quella delle 18, a fare concorrenza sleale. Cala il sipario dopo 54 anni. Si era alzato nel settembre del 1970 da una idea di Maurizio Barendson e Paolo Valenti. La sigla più famosa, con la tipica musichetta, mostrava una curva dello stadio Olimpico che si riempiva gradualmente. Era il trait d’union per tutti i tifosi. Accendevano la tv quelli che tornavano dallo stadio (le gare erano tutte rigorosamente allo stesso orario) per vedere quello che dalla piccionaia della curva avevano solo intuito, o quelli che dopo il pranzo domenicale si erano affidati alle voci in acerrima competizione di Enrico Ameri e Sandro Ciotti, re di un altro caposaldo domenicale come Tutto il calcio minuto per minuto.
Giornalisti diventati star della tv
La forza di Novantesimo era nelle immagini in anteprima, ma anche nella personalità dei giornalisti, identificati fatalmente con le squadre che seguivano. Perché se Paolo Valenti era stato straordinario a non far mai trapelare la sua fede calcistica (nella trasmissione successiva alla scomparsa, Nando Martellini ricordandolo ne rivelò la passione per la Fiorentina), per gli altri si era creata una simbiosi. Quando c’era da commentare l’Ascoli di Carlo Mazzone e Costantino Rozzi, il presidente dagli scaramantici calzini rossi, il volto era Tonino Carino con il suo aspetto timido e gentile e forse per questo diventato star assoluta. Se Antognoni segnava su punizione il cantore era Marcello Giannini, mentre dall’Olimpico illustrava Giampiero Galeazzi (che poi sarebbe diventato il conduttore). Infinite schegge della memoria. Cesare Castellotti con le sue cravatte un po’ così da Torino, Giorgio Bubba per le genovesi, Ferruccio Gard con il suo aspetto intellettuale a raccontare l’irripetibile cavalcata scudetto del Verona. E ancora, parecchi km più a Sud, Luigi Necco. Dopo aver fatto vedere le immagini del Napoli lasciava la scena all’entusiasmo degli scugnizzi fino a quel momento tenuti faticosamente a bada. Sarebbe così anche adesso? Gli scugnizzi avrebbero visto e commentato già tutto, e Necco forse sarebbe rimasto solo.