A 25 anni ha lasciato l’Italia per inseguire il suo sogno di allenare in Spagna. È partito dal basso, divideva le sue giornate tra lo studio (Psicologia sportiva e Metodologia dell’allenamento giovanile) e il campo: e intanto, per garantirsi da vivere, vendeva prodotti gastronomici nostrani ai ristoranti italiani di Valencia. Sono passati 14 anni e Alessio Lisci si è guadagnato in estate la chiamata dell’Osasuna nella Liga. “Veni, vidi, Lisci”, la formula con cui il club navarro l’ha presentato ai tifosi. Lisci, 39 anni, romano, una breve carriera da giocatore dilettante nel Guidonia, poi coordinatore motorio per i Pulcini e gli Esordienti della Lazio, nel 2011 mandò un curriculum in pdf a tutte le squadre spagnole: gli rispose il Levante e da quel vivaio ha iniziato la scalata. Viene da due ottime stagioni in Segunda Division al Mirandés, in una città di 36mila abitanti (Miranda de Ebro): ha sfiorato la promozione ai play-off. Ora a Pamplona insegue l’Europa.
Lisci, il 19 agosto debutta al Bernabeu contro il Real: è pronto?
«Sì, sarà difficile, ma anche bello. Sono le partite che tutti vogliamo giocare e, quindi, le affrontiamo con grande voglia, energia e cercando di fare la miglior prestazione possibile».
I risultati delle amichevoli non sono stati entusiasmanti.
«Le mie squadre hanno sempre problemi in estate, lavoriamo per sviluppare nuovi aspetti senza dare importanza al risultato».
Senza Ancelotti, c’è lei a rappresentare la scuola italiana.
«Carlo è una grandissima persona. Ho seguito i suoi allenamenti, è uno di quelli a cui cerco sempre di rubare idee, è uno dei migliori di sempre».
A 22 anni ha smesso di giocare per allenare. Ha sempre avuto le idee così chiare?
«Se uno è onesto con se stesso sa se potrà diventare un calciatore professionista o no. Io penso di aver fatto la scelta migliore».
Ancelotti, Guardiola, Luis Enrique: grandi calciatori, prima, grandi allenatori, poi. Lei spera di ripetere la carriera di Mourinho?
«Mi accontenterei di un terzo dei suoi trofei».
Quale allenatore l’ha influenzata di più?
«Non ce n’è uno solo. Ogni anno cerco di reinventarmi e rinnovarmi. Negli anni, le mie idee e i miei modelli sono cambiati perché è fondamentale rimanere aggiornato».
Mentre lavorava alla Lazio decise di mandare il suo curriculum, via mail, a tutti i club della Liga. Perché la Spagna?
«Perché il calcio spagnolo mi ha sempre attratto: mi sembrava una grande opportunità. E poi perché, in Spagna, è più semplice accedere ai corsi di allenatore».
Il Levante rispose alla sua mail. Ma per arrivare a fine mese lei vendeva prodotti enogastronomici. Rendeva bene?
«Ci sono moltissimi ristoranti italiani a Valencia e, quindi, era facile piazzare tutto (ride, ndr). Non mi vergogno di ciò che ho fatto, anzi ne vado orgoglioso. Ho cominciato a lavorare quando avevo 14 anni, mentre studiavo. Mi ha aiutato ad aprire la mente, a essere consapevole dell’importanza del sacrificio per raggiungere gli obiettivi».
C’è stato un momento, però, in cui le cose al Levante non andavano bene e nel 2016 lei è tornato a Roma. Ha temuto che il suo sogno fosse finito?
«Ero il secondo allenatore, avevo colpe anche io, non mi nascondo, ma sapevo che nella carriera di un tecnico, come nella vita in generale, ci sono alti e bassi. Il nostro non è un percorso lineare».
Guardando l’Italia cosa vede?
«Un campionato di livello altissimo che ogni anno migliora. Dopo la Premier è al livello di quello spagnolo».
Qual è la differenza tra i vivai spagnoli e quelli italiani?
«La consapevolezza che sono le seconde squadre a permettere ai giovani di debuttare con la prima. Non è un caso che la Juve negli ultimi anni sia riuscita a far esordire tantissimi giocatori. Si tratta di un trampolino decisivo. È fondamentale abbattere quello scalino che c’è da noi tra la Primavera e la prima squadra».
Da noi mancano i talenti o la capacità di scovarli e la pazienza di aspettarli?
«I talenti non mancano. E infatti le Nazionali giovanili ottengono grandi risultati internazionali. Il problema è il buco che si crea tra i 18 anni e la prima squadra. Improvvisamente si ritrovano a giocare poco e non crescono più».
L’Osasuna è un club che investe in identità e formazione.
«I giocatori che vengono dal vivaio ti danno sempre un plus nei momenti di difficoltà perché sentono la maglia molto di più di uno arrivato da un altro posto. È chiaro che sull’altra faccia della medaglia ci sono le tante pressioni che ricevono, tutti si aspettano sempre qualcosa in più da loro».
Quanto conta lo psicologo nello staff?
«È fondamentale perché i giocatori e gli allenatori sono sottoposti a una pressione sociale che arriva dall’entourage, dalla famiglia, dai tifosi, dagli avversari. È molto difficile gestire queste pressioni esterne senza l’aiuto di un professionista».
Da quando è in Spagna ha mandato il curriculum in Italia?
«No. Se farò bene è chiaro che arriveranno offerte. Altrimenti, non c’è problema, andrò in altri Paesi».