Carlao meravigliao. Difficile immaginare un profilo più adatto di Carletto Ancelotti, quasi un brasiliano ad honorem, per la panchina più prestigiosa al mondo. Non solo per magistero tecnico, carisma e peso internazionale: Ancelotti ha vinto ovunque, parlando e traducendo in ogni idioma la sintassi del suo calcio ideale: prima vengono i giocatori, le loro caratteristiche, la loro adattabilità, poi il gruppo e l’atmosfera che un vero capo sa creare, infine (ma insieme) le tattiche, mai indossate però come una camicia di forza.
Un Brasile triste, Ancelotti chiamato a riportare allegria
Da mesi si parla di Ancelotti come statua granitica, un “Cristo” laico e misericordioso, capace di allargare le braccia lassù in cima al Corcovado. E ancora di più se ne parla adesso, in un momento più grigio che verdeoro per la mitica nazionale di Pelè e Ronaldo il Fenomeno, alle prese con tristi qualificazioni mondiali e ormai da troppo tempo senza quella Coppa tutta d’oro tra le mani. Ci vuole proprio qualcuno che sparigli le carte, qualcuno che sappia come metterle in tavola. Qualcuno che vinca ed entusiasmi.
Rio come Napoli, ma stavolta non ci sarà De Laurentiis
Che poi Ancelotti abbia fallito, un’unica volta (a parte le due controverse stagioni juventine) proprio sulla panchina più “brasiliana” fuori dal Brasile, e cioè a Napoli, è un accidente che forse non pesa, ma qualche piccolo sospetto lo induce. A vantaggio di Carlo, la certezza che a Rio non troverà De Laurentiis ma un’organizzazione pronta a pendere dalle sue labbra. Labbra che sapranno subito trovare le parole giuste, senza bisogno dell’interprete: perché Ancelotti parla l’esperanto del calcio, un verbo che non si può non comprendere.
Il Brasile è il Real Madrid delle nazionali
Il Brasile è il Real Madrid delle Nazionali, ovvero il meglio nella storia, la più somma grandezza immaginabile. Qualcosa che va oltre le vittorie ed entra direttamente nell’atmosfera, nel fascino dell’epopea, nel peso di una suggestione planetaria. Ed è molto importante che dall’alto dei cieli abbiano fatto Papa proprio lui, il Carletto che preferisce la coppa (cit.), quella insaccata non meno di quella dei Campioni o del mondo. Signore degli scudetti e di tutti i trofei, amico dei calciatori ma con la giusta fermezza, erede in terra di quel Nils Liedholm che oggi Carlo ricorda anche nel fisico e nella postura umana (le battute, la sapienza, l’occhietto ironico, il non prendersi mai troppo sul serio), Carlo Ancelotti attraversa l’oceano e il tempo, provando a dimostrare che essere i più bravi significa, davvero, essere i migliori: non solo come allenatori o giocatori, ma come persone, come esseri umani. E sull’umanità di Carlo, nessun dubbio.
Vincere, ma in Brasile bisogna giocare bene
Impossibile che in Brasile non si faccia amare, anche se da quelle parti ti mettono sulla griglia anche soltanto per un pareggio o, peggio, se la Nazionale magari vince ma senza giocare bene, senza toccare i cuori. Ancelotti lo sa, ed è certo che arriverà a Rio in punta di piedi, solido della propria storia che può andare a braccetto con quella di chi lo ha scelto. Non ci meraviglieremmo se Carlao Meravigliao, alla fine, fosse una meraviglia anche laggiù.