MILANO — Tornare dove si è stati bene, nonostante tutto. Svolgimento: “È un carico di emozioni, viaggi indietro nel tempo, riaffiorano nella mente tante situazioni”. Antonio Conte presenta così il proprio ritorno su una panchina a San Siro, dove manca dalla fine della stagione 2020/21, chiusa da campione d’Italia. E dove dopo dieci anni guiderà una squadra contro l’Inter. Allora era la Juve, domenica sarà il Napoli.
Ma dei giorni interisti ha già parlato, con altri toni, lo scorso settembre: “Appiano era un disastro. Abbiamo lavorato su campi e foresteria, ora è un fiore all’occhiello”. Parole che alla Pinetina non sono piaciute, e sarebbe strano il contrario. Quando arrivò a Milano, chiamato da Marotta per sostituire Spalletti, il progetto del centro sportivo, abbozzato in era Thohir, era già stato messo in cantiere dai nuovi padroni cinesi: dalle stanze dei giocatori allo sviluppo delle palestre. Lui mise fretta, questo sì. Chiese che il nuovo prato fosse steso il più presto possibile. Pretese che fossero lasciati fuori dai cancelli gli assistenti dei giocatori e gli autisti personali, che bazzicavano l’ex fortino di Helenio Herrera.
Conte e il mercato faraonico del 2019
Non si è più tornati indietro. La Pinetina oggi è isolata come una sala operatoria. E la sua eredità non si esaurisce lì. Scorrendo l’album dei ricordi del biennio contiano — secondo posto in campionato, finale di Europa League e diciannovesimo scudetto — si trovano innovazioni che hanno portato a quel che è venuto dopo. Fu Conte a impostare il 3-5-2 che, nella visione riveduta e corretta di Inzaghi, ha condotto alla finale di Istanbul e alla seconda stella. Fu sempre Conte, insieme a Marotta e Ausilio, a convincere gli Zhang a fare il mercato faraonico dell’estate 2019, che traghettò in nerazzurro Barella, Bastoni e Lukaku. Anche il belga va iscritto nell’inventario dell’eredità: la sua cessione per 115 milioni al Chelsea ha aiutato a mettere i conti a posto, permettendo di costruire la squadra di Çalhanoglu e Dzeko (il primo arrivato a zero, il secondo quasi), poi di Sommer e Thuram. L’ex ct trovò un’Inter in Champions, educata alla costruzione dal basso da Spalletti che, nonostante avesse magre risorse, aveva lasciato il segno. Anche al centro di allenamento, dove volle, fra l’altro, che le siepi fossero potate di modo che i campi fossero visibili dalla palestra.
Tra Conte, Spalletti e Inzaghi una staffetta in continuità
Quella fra Spalletti, Conte e Inzaghi è una staffetta in cui non è facile dire chi ha fatto cosa. I tre corrono con passo e stile diversi. Conte non comunicava ai giocatori fino a sera se l’indomani ci si sarebbe allenati la mattina o il pomeriggio. Inzaghi al contrario ama programmare, pur senza arrivare alle vette di Mourinho, che ogni mese consegnava l’intero programma del successivo. Su una cosa sono quasi tutti d’accordo: Conte ha riportato la mentalità vincente. Non si può escludere che, con un mercato adeguato, uno scudetto lo avrebbe vinto anche Luciano.
Lo staff deluxe dello scudetto interista di Conte
Ma Conte ha vinto, ed è un fatto. Ci è arrivato con uno staff deluxe. Il vice Stellini ora è con lui a Napoli. Il vice del vice, Vanoli, allena il Torino. Antonio Pintus, leggenda della preparazione atletica, è tornato alla Casa Blanca. Non ci sarà mai una visione univoca su quanta parte della gloria dell’Inter di Inzaghi, che domenica scenderà in campo con lo scudetto sul petto dopo otto vittorie nelle ultime nove partite, sia ascrivibile al predecessore, che se n’è andato sbattendo la porta. La notizia è che Conte, dopo la sparata sulla Pinetina “che era un disastro”, ora corregge il tiro: “Affronteremo la squadra più forte. Hanno fatto un grandissimo lavoro. Sono cresciuti tutti, dirigenti, allenatore, giocatori”. Poi ci sono i tifosi, che dovranno decidere se applaudirlo, ignorarlo o — improbabile, visto quel che è stato — fischiarlo.