E no, non l’abbiamo visto arrivare. Nella traccia ormai ventennale di una parabola che si è snodata per lo più in provincia e che nel tempo ha segnato innumerevoli svolte, qualche inevitabile inciampo e piccoli grandi momenti di non trascurabile felicità; Marco Baroni ha trovato alla Lazio il contorno che gli appartiene e per cui ha sempre lavorato: quello dell’allenatore che piace e – soprattutto – vince. A 61 anni e senza più l’urgenza di dimostrare alcunché, questo vecchio ragazzo è – paradossalmente – il nome nuovo della categoria a cui appartiene, pur smarcandosi – nella posa sobria, nelle parole mai banali, nei valori che trasmette – dalla eletta schiera dei colleghi più blasonati (e talvolta anche più incazzosi, ancorchè reclamizzati). Una mosca bianca(celeste).
La nuova Lazio di Baroni
La vittoria della Lazio a Napoli, contro quel Conte con cui aveva condiviso campo e ufficio a inizio carriera – Antonio sulla panchina della Juventus, Marco nella Primavera bianconera – e nello stadio dove da calciatore toccò lo zenit della sua più che dignitosa carriera (con il gol che valse il 2° scudetto napoletano proprio in un Napoli-Lazio del 1990) scopriamo che oggi Baroni si sta giocando l’occasione della vita. Lo sta facendo con una Lazio sorprendente, penalizzata (ma anche no) dalle partenze dei big che avevano tracciato il solco negli ultimi anni: Immobile, Luis Alberto, Milinkovic. Poi riveduta e corretta all’insegna di acquisti mirati come Dia, Nuno Tavares, Noslin, ancor più valorizzata nei suoi uomini-chiave (Rovella, Guendouzi, Zaccagni, Castellanos), corroborata dalla crescita di alcuni personaggi in cerca d’autore (Isaksen, Gila, Pellegrini) e riverniciata con scoperte dell’ultim’ora (Dele-Bashiru).
Baroni e la salvezza miracolosa del Verona
A tutto questo si accompagna un gioco sempre propositivo – i tempi della partita li detta sempre la Lazio, così è stato anche al Maradona – e di una gestione del gruppo che lo stesso allenatore ha riassunto in un post su X: “Non servono pochi, non bastano tanti: ci vogliono tutti”. E dire che all’arrivo a Roma, questa estate, l’uomo era stato accolto (eufemismo) da un generale scetticismo. Baroni aveva guadagnato la panchina della Lazio dopo aver centrato controvento tre salvezze, prima nel biennio con il Lecce e poi, la più complicata, alla guida del Verona, mantenendo l’equilibrio (mentale, tecnico) in mezzo alla bufera, con un presidente indagato per bancarotta fraudolenta, un club costretto al “Vendo tutto” di gennaio e una squadra a cui dare un senso, come rimontare una Billy dell’Ikea scoprendo che mancano otto viti e la brugola. E insomma, bravo ma. Agli occhi dei tifosi aveva le sembianze del Medio-Man perfetto per la politica di ridimensionamento che – con consolidata frequenza – viene addebitata a Lotito. E invece.
Baroni, l’ultimo allenatore inventato da Lotito
Poiché trattasi di campionato che ha scombinato le gerarchie – l’Atalanta è prima, Juventus e Milan in netto ritardo – e anche se la vetta (oggi la Lazio è 3ª a -3 dalla capolista) è vicina e rimanda un bagliore che può stordire; questa Lazio si sta attestando, insieme alla Fiorentina, come la variabile impazzita del campionato. Per dire: nel posticipo del prossimo turno, lunedì sera all’Olimpico, arriva l’Inter e la sfida si presenta davvero come il piedistallo per un volo che nemmeno la famosa Aquila avrebbe immaginato. A margine, si sottolinea qui, nello scontornare Lazio-Inter, l’incrocio tra un allenatore – Simone Inzaghi – letteralmente inventato da Lotito e di un altro – Marco Baroni appunto – a cui lo stesso Lotito, con la meno ridondante delle scelte, ha offerto all’ultimo giro di giostra la possibilità di dimostrare non chi è, ma chi è sempre stato.