Collecchio (Parma) – Adrián Bernabé si è disegnato la vita addosso. Il centrocampista del Parma mostra l’occhio che ha tatuato sull’avambraccio sinistro come fosse una pagina di diario. «È quello a cui tengo di più. Rappresenta mio nonno, che non ho conosciuto. Mi guarda da lassù».
Al primo gol, in B contro la Spal, esultò mimando la lettera “M”.«Una dedica a mamma. La sento ogni giorno, è la persona più importante. Con lei mi sento davvero a mio agio».
Un altro dei suoi tatuaggi è dedicato a Kobe Bryant.«Quando Kobe giocava, non guardavo tante partite come oggi, ma era già il mio idolo. Non leggo molto, ma ho letto tanti libri sulla sua vita. Lui era un campione del basket, io provo a giocare a calcio, ma lo considero un modello».
Con Eric Garcia, suo compagno nel vivaio del Barcellona, condivide la passione per la pallacanestro.«Ogni estate andiamo insieme negli Stati Uniti a vedere l’Nba. Quest’anno in Oklahoma e Indiana. Lo scorso, a New York e Boston».
Invidia qualcosa ai giocatori di basket?«Giocano intensamente per sei mesi, poi ne hanno cinque per recuperare. La nostra off season è breve. Ma non mi lamento. Ringrazio per ogni giorno in cui posso giocare a calcio, dopo quello che è successo al mio cuore».
Anche quell’esperienza la racconta un tatuaggio.«Quando mi ha visto a torso nudo, dopo l’operazione, il tatuatore mi ha proposto di farlo. Il disegno ricalca la cicatrice. È una linea di elettrocardiogramma, che termina con la sagoma di un calciatore. Rappresenta quel che ho vissuto e la mia capacità di andare avanti».
Quando nel 2021 fu scoperta la sua anomalia cardiaca, ebbe paura di non poter più giocare?«Certo. Di colpo il futuro, la carriera e il piacere di giocare non sono più certezze. È successo a Joan González del Lecce, a Eriksen, a Bove. Storie simili ma diverse. Io ho avuto la fortuna di avere una diagnosi prima di stare male, e questo ha cambiato molto».
Era appena arrivato a Parma.
«Club e compagni mi sono stati vicini, mi hanno aiutato a superare i primi momenti, i più duri. Non avevo ancora firmato il contratto, ma già mi sentivo in famiglia».
A che età ha iniziato col calcio?«A tre anni, papà mi ha portato in un campo vicino a casa. Mi allenavo con i più grandi. A cinque, giocavo con quelli di sette. A sette, mi ha preso l’Espanyol».
Aveva già questo sinistro?«Sì, è un dono. Con il destro invece non facevo niente. Adesso provo a allenarlo, ma la tentazione di calciare di esterno sinistro rimane».
È difficile dribblare in Italia?«Sì, come in Spagna. Le squadre coprono tutti gli spazi, ma non mi faccio intimorire. Sono piccolo, ma in campo mi sento grosso. Ho energia e forza nelle gambe, quando abbasso il baricentro è difficile togliermi la palla».
Come sopporta la pressione?«Un professionista deve resistere a tutto: pubblico, complimenti esagerati, critiche. Vivi nell’attesa della partita, non puoi giocare con la paura di sbagliare. Quello che ho passato mi ha reso più sicuro».
Un avversario che l’ha messa in difficoltà?«Makoumbou, ex Cagliari, ora in Turchia. Elettrico e dinamico, vuole la palla, ti arriva subito addosso».
Un momento che il Tardini aspetta è la sua ruleta: interno sinistro, rotazione, tacco destro.«Una giocata rischiosa, va fatta nel momento giusto, per dare sicurezza ai compagni. Vale lo stesso per la croqueta: due tocchi e via. La faccio da quando sono piccolo».
Copyright di Andrés Iniesta.«Gliela vedevo fare allo stadio, era il mio idolo. Negli anni ho capito che si può imparare da tanti».
Fuori dal calcio, Kobe a parte, chi la ispira?«Mio papà. Ha lottato, ha fatto sacrifici. Lavorava in edilizia e, finito il turno, stanchissimo, mi portava agli allenamenti dall’altra parte di Barcellona. Oggi ha un lavoro più tranquillo, viene in Italia per vedermi giocare. Non gli basta guardarmi sullo schermo».
Grazie a YouTube ha conosciuto Zola, che a Parma ha fatto la storia.«Per ragioni di età, non l’ho mai visto giocare dal vivo, ma guardo i filmati delle sue punizioni. Quando l’ho indicato fra i miei calciatori preferiti, mi ha scritto un messaggio: “Grazie fenomeno”».
L’hanno paragonata a tanti giocatori, Messi compreso.«Se sei giovane e giochi a calcio, vieni subito paragonato ai campioni, ma non ha senso. So che devo fare la mia strada».
A che età il primo cellulare?«Quattordici anni, e sono contento così. Il telefono ruba tempo. Oggi vedo i ragazzini sempre connessi. Per me, soprattutto all’inizio, serviva per chiamare la famiglia».
Quindi non seguì sui social la polemica per il suo passaggio dall’Espanyol al Barcellona.«Per fortuna no, l’ho saputo dopo anni. Ne avevo dodici, i miei genitori furono presi di mira, ma la decisione era mia. Per quattro anni rifiutai il cambio di squadra, poi capii che era il momento giusto».
Come ha scelto Parma?«Seguii Maresca, che mi allenava al Manchester City. E grazie a un segno del destino: nei giorni della scelta ero a Minorca, in vacanza con amici. In spiaggia, oltre a noi, c’erano solo due famiglie. Uno dei padri aveva il borsone del Parma. Chiamai subito il mio procuratore».
Iván de la Pe?a. Cosa le disse dell’Italia?«Mi segue da sempre, mi conosce. Trovò le parole giuste: in Italia il calcio è importante. E si mangia bene».
Detto a un cuoco come lei…«Mi piace cucinare, ma sono basico. Ultimamente ho imparato a fare le zucchine alla griglia».
Pep Guardiola, in due anni a Manchester, cosa le ha insegnato?«La tattica, la posizione. Mi sono allenato con alcuni dei giocatori più forti del mondo».
Il suo primo gol in A il 5 aprile all’Inter. Il vostro tecnico era Chivu.«Ha avuto un impatto fortissimo, dovevamo salvarci. Ha compattato il gruppo, ci ha capiti come persone e come calciatori. Merita l’Inter, gli auguro ogni bene».
Come lavora Cuesta?«Porta energia positiva, ci spinge a dare tutto. Lavoriamo tanto su palle inattive e calci piazzati, la specialità dell’Arsenal, da cui proviene».
Che effetto fa avere un allenatore più giovane di alcuni compagni di squadra?
«Vent’anni fa sarebbe stata una stranezza, oggi si comincia presto. Esordiscono giocatori di 15 anni, lo stesso vale per la panchina».
Cosa ascolta prima di un match?«Pop melodico spagnolo. La Oreja de Van Gogh, El canto del loco. Ma anche Adele. Nello spogliatoio lascio la musica, mi cambio in fretta e faccio il riscaldamento».
Quali sono i suoi sogni?«La Champions e il Mondiale. A Parigi ho vinto l’oro olimpico con la Spagna e ho realizzato solo quando ho abbracciato la mia famiglia a bordo campo. Quel momento mi ha risarcito di tante sofferenze».
E dopo il calcio giocato?«Non ho dubbi, voglio fare l’allenatore. E restare come sono, una persona normale, con una famiglia tranquilla. Voglio rendere felice chi ho accanto».