Napoli – Dopo avere segnato è scoppiato a piangere. “Non ero pronto, non sapevo come esultare”, ha spiegato Philip Billing, danese di padre nigeriano, centrocampista tuttofare, ingaggiato in prestito con diritto di riscatto dal Napoli, a gennaio, per sostituire, secondo necessità, McTominay, Lobotka e Anguissa. Contro l’Inter è entrato a undici minuti dalla fine al posto di Gilmour. Nemmeno il tempo di sudare la maglia, e aveva già le guance rigate dalle lacrime. “Quello che è successo è incredibile. Per me è un sogno segnare in una partita così”, ha detto. Poi si è lanciato in una specie di auto-moviola: “Ho sbagliato il primo tiro, in realtà è stata una bella parata, poi sono riuscito a fare gol”. Un gesto tecnico meno pregevole della punizione di Dimarco, la prima segnata di sinistro allo stadio di Napoli da quando si chiama Maradona. Eppure, il gol che chiude il tabellino è il suo, ed è lui l’uomo della serata.
Billing, uno sportivo universale
Il senno di poi dirà se la rete di Billing sarà decisiva nella corsa scudetto. Di sicuro, ha impedito all’Inter di scappare e ha tenuto il Napoli a un punto dalla vetta. Quante cose che ha fatto il ragazzone di Copenaghen con quella doppia pedata, la seconda più fortunata della prima. E chissà com’è bello ora il mondo visto coi suoi occhi, da lassù. Philip è alto 1,98 centimetri. Ha lasciato la Premier League, dove aveva cominciato a giocare nel 2017 con la maglia dell’Huddersfield, con una media del 63 per cento di duelli aerei vinti. Roba da centrale di difesa. Quelli come lui – alti ma coordinati – nelle facoltà di Educazione fisica li chiamano “sportivi universali”. Avrebbe potuto fare il tennista, servendo a 200 all’ora, la guardia nel basket o il giocatore di hockey. E infatti lo ha fatto: “I miei piedi erano veloci sul ghiaccio, come in area”, racconta. Ha scelto il calcio su consiglio della madre, e a 17 anni si è trasferito in Inghilterra.
Billing sta imparando l’italiano e il napoletano
Al Bournemouth, dopo cinque anni e 28 gol (di testa, solo quattro) era finito ai margini. Quasi ventinovenne, ha deciso di non perdere tempo. A Napoli ha passato cinque partite in panchina, poi domenica scorsa Conte lo ha buttato in campo dall’inizio contro il Como. Se l’è cavata maluccio, come quasi tutti i suoi compagni. Ma per la rivincita ha dovuto aspettare sei giorni appena. “L’importante è non aver perso. Di scudetto non si deve parlare troppo”, ha detto dopo l’1-1 con l’Inter, dimostrando di ragionare già da italiano, pur non parlando la lingua. In napoletano sa una parola sola, “fratm, that means brother”. Abbastanza per stare simpatico ai tifosi. Con i nuovi compagni, “che sono eccezionali”, dice di essere già amico. Giocherà con loro alla PlayStation, quando gliela spediranno dall’Inghilterra. Aspettando la consolle, dipinge, scatta foto con una reflex, tifa il tennista Carlos Alcaraz, guarda il padel in tv. Chissà che trovi tempo anche per studiare un’esultanza meno melodrammatica. Conte, “un grande allenatore”, di gol da lui se ne aspetta altri. Sarebbero utili per la classifica, visto che quell’altra parola non la vuole usare.