MILANO — Cristian Brocchi non vuole più fare l’allenatore ma il calcio lo studia, lo osserva, cerca soluzioni. Soprattutto a una domanda: perché l’Italia non produce più talenti? “Una frase che mi fa arrabbiare. I ragazzi bravi ci sono, non è che il gene è cambiato. È un problema di sistema, strutture e formazione”. Il tema gli sta a cuore, anche perché ha due figli che giocano a calcio: Federico di 19 anni e Filippo di 16. Non hanno praticamente mai visto un Mondiale con l’Italia: l’ultima volta, nel 2014, erano troppo piccoli. Anche per loro Cristian ha lanciato un podcast prendendo spunto dal suo cognome, “Brocchi si nasce, campioni si diventa”, prodotto da Dr Podcast, nove episodi in totale, due a settimana ogni mercoledì e venerdì.
Brocchi, come le è venuta questa idea?
“Sono nato a Buccinasco, non avevo niente e mi sono costruito una carriera da calciatore grazie agli allenatori che mi hanno seguito. Ai miei tempi erano formatori, ti davano delle regole. In questo mondo ci sono tanti Brocchi che hanno bisogno di tecnici validi, e pochissimi Messi e Cristiano Ronaldo. Si punta troppo sui calciatori stranieri. Quando ne vedo alcuni, neanche così bravi, indossare maglie importanti mi sale il nervoso. Almeno un 50 per cento di loro potrebbero essere sostituiti da prodotti dei vivai. Piuttosto che spendere milioni all’estero, investiamo sui giovani”.
Ogni tanto spunta ancora qualche talento, come Leoni del Parma, subito nel mirino di Inter e Milan.
“Prima ce ne erano tanti, adesso quando arriva un Leoni, un Comuzzo, il prezzo sale subito a 40 milioni. Ai miei tempi, sarebbero stati venduti a 15, per poi valerne 50 dopo qualche anno. Lo step intermedio non esiste più”.
Cosa non funziona nelle giovanili italiane?
“La cosa peggiore è che, quando parli con un allenatore delle giovanili, ti dice in che posizione è in classifica. Si pensa solo a vincere, non c’è cosa più sbagliata per chi dovrebbe formare i giocatori. Le istituzioni dovrebbero vietare i premi ai ds e agli allenatori per le vittorie nei campionati giovanili, e dargliene solo se portano un giovane in prima squadra. Per scalare le gerarchie e guadagnare di più i tecnici pensano solo ai risultati”.
Una soluzione?
“Dessero gli stessi stipendi agli allenatori di ogni giovanile, da chi segue i bambini di 8 anni ai ragazzi più grandi. Si faccia un patentino per i tecnici delle giovanili, specializziamoli e formiamoli. Guidare la crescita dei giovani è una cosa, un’altra è seguire una prima squadra”.
Va cambiata la gestione, quindi?
“Quest’anno ho parlato con un allenatore di una U16, che mi diceva: ‘Gioco senza attaccanti perché quelli che ho non sono all’altezza’. Ma siamo in U16! Allenali, falli giocare e mettili alla prova. No, lui doveva vincere la partita della domenica e quindi in attacco adattava un centrocampista, più pronto fisicamente. È una follia. L’obiettivo dei settori giovanili deve essere portare i giocatori nelle prime squadre. Non me ne frega niente se arrivi decimo, mi interessa quanti calciatori hai formato”.
Ci faccia qualche esempio.
“Le dico di Bobo Vieri, che per me è come un fratello. Da ragazzino era tutto scoordinato, brutto da vedere, tecnicamente sporco. Se non avesse avuto allenatori capaci si sarebbe perso. Invece capirono le sue potenzialità, gli insegnarono movimenti e tecnica. Adesso non c’è quella pazienza”.
Con Vieri gioca a padel, a calcio fa ancora fatica per il problema al piede destro che l’ha costretta al ritiro.
“Mi feci male in un Lazio-Juventus, e dopo due operazioni e un anno di calvario ho smesso. Ora mi concedo il padel perché il campo è piccolo e reggo gli spostamenti. Appena gioco in spazi più grandi mi stiro, cede il piede”.
I suoi figli stanno seguendo le sue orme. Gli piacerebbe arrivassero nel grande calcio?
“Sì, non voglio fare il moralista. Sarebbe bello se vivessero di pallone e diventassero professionisti, ma intanto è importante che studino così, non dovessero farcela, avranno la possibilità di crearsi una vita tanto bella quanto quella dei calciatori”.
Ha raccontato che qualche mese fa una chiamata le aveva fatto riaccendere il fuoco per la panchina. La decisione di non allenare più è definitiva?
“Sì, non me la sento più di stare in questo mondo. Ho fatto l’allenatore per otto anni, tra tante difficoltà. Al Milan sono stato messo in prima squadra dopo un triennio bellissimo, e di quella scelta ne ho pagato le conseguenze per il resto della carriera. Ho avuto troppe delusioni. A Monza ho fatto un buon lavoro, ma uscito da lì sembrava che nessuno lo avesse visto. Ho pensato: ‘Sotto c’è altro’. Ed è così. La cosa paradossale è che, da quando ho detto addio alla panchina, ho ricevuto diverse offerte di alto livello, le ultime qualche settimana fa da un club di B e uno di C. Le ho rifiutate”.
Oggi è felice?
“Lo sono, faccio solo quello che mi fa stare bene, sto con la famiglia. E, dopo l’esperienza in Kings League, sono diventato dg del Gruppo Zeta. Oltre al lavoro con Amazon Prime e Radio tv serie A”.
Cosa pensa del Milan, ripartito con Allegri dopo una stagione deludente?
“Max mette d’accordo tutti, la sua carriera parla per lui. Ha carattere, esperienza, le spalle larghe. È l’allenatore giusto”.
E Tare, che la portò alla Lazio?
“Un ds vecchio stampo, molto presente con la squadra, bravo a scegliere i giocatori. Una persona schietta e onesta. Porterà serietà: se ti alleni male una volta lascia correre, la seconda ti chiama subito in ufficio. È molto presente”.
Come vede Ancelotti, uno dei suoi maestri, ct del Brasile?
“Il suo più grande pregio è saper gestire i campioni, farli rendere al 110 per cento. Lì ne ha tanti, poi non è semplice vincere avendo poco tempo per lavorare”.
E Gattuso alla guida della Nazionale?
“Una scelta popolare. Si parlava tanto di disamoramento verso l’Italia, c’era bisogno di una figura come Rino, che rappresenta appartenenza alla maglia, spirito di sacrificio, voglia di lottare. Spero ci porti al Mondiale”.
Lei sfiorò quello del 2006.
“Feci una grande stagione alla Fiorentina, ma Lippi dall’anno prima aveva formato il suo gruppo e lo portò così com’era in Germania”.
Ha un rimpianto per quanto fatto da calciatore o allenatore?
“Io feci una scelta: restare al Milan, che era il mio tutto, pur sapendo di non essere un titolare di quella squadra stellare. Mi sono tolto belle soddisfazioni. Certo, probabilmente se fossi andato in altre squadre a giocare avrei avuto 15 o 20 partite in più in Nazionale. Ma non avrei vinto tutto con la maglia del mio cuore”.
Il ricordo più dolce?
“Ne ho due. La prima vittoria in Champions nel 2003, in finale contro la Juventus dopo aver giocato da titolare quarti e semifinale. E la Coppa Italia al primo anno con la Lazio, la ciliegina sulla torta, un ricordo indelebile”.