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Bruno Conti: “Il grande rimpianto è per Di Bartolomei”

Intervista al campione del mondo che il 13 marzo compirà 70 anni: gli stornelli di Spagna ’82, le sigarette, lo scontro con Cassano, il legame con Mourinho

Bruno Conti, tra pochi giorni festeggerà 70 anni. Se chiude gli occhi, qual è il primo ricordo che viene a galla?

«Ho vissuto più di 50 anni di calcio, non è facile. Ma il primo pensiero va a mio padre, a quando sono stato preso alla Roma nel ’74 e a casa nostra è arrivata questa notizia: aveva fatto sacrifici per crescere sette figli, quando gli dissi che mi avevano preso non stava più nella pelle. Era un taciturno, non è che parlasse tanto, ma negli occhi vedevo la sua gioia, la sua soddisfazione: suo figlio andava a giocare nella Roma».

Da lì ai Mondiali del 1982: è vero che facevate degli stornelli, delle canzoni un po’ ironiche?

«Era con Gianpiero Marini: lui suonava la chitarra molto bene, allora io e Ciccio Graziani ci cantavamo sopra e venivano fuori delle canzoni un po’ strane, capito? Sa, le osterie…».

Gli stornelli in ritiro, fuori il silenzio stampa.

«Eravamo a Vigo, ma eravamo partiti da Alassio già con tante polemiche, ammazzavano Bearzot, non gli perdonavano di aver portato Paolo Rossi dopo la squalifica, e poi al posto di Pruzzo… C’era veramente quest’aria pesante, già dopo la prima partita con la Polonia, che avevamo pareggiato. Noi, per alleggerirla, ci facevamo una cantata».

E qualche sigaretta…

«Non è bello dirlo, ma fumo da quando ero ragazzino: siamo cresciuti in strada. Una volta era diverso, c’erano tanti calciatori con il vizio, sembrava normale. Poi, però, quando la vita ti presenta il conto e nascono problemi a livello medico, che vanno tanto ma proprio tanto a condizionare la tua salute, ci ripensi…».

Le capita di aver paura?

«Di certe cose preferisco non parlare. Per rispetto, perché ci sono persone che di salute stanno peggio di me».

Fumava molto?

«Non è che consumassi due o tre pacchetti al giorno. Altri fumavano molto più di me: il grande Zeman, a cui auguro tutto il bene possibile. E Walter Sabatini: giocavamo insieme e già fumavamo, ora abbiamo tutti e due la sigaretta elettronica».

Da ragazzino ha conosciuto anche sua moglie Laura.

«In quel periodo lavoravo nel negozio di casalinghi di mia zia, portavo le bombole del gas negli appartamenti. D’estate, in uno stabilimento balneare, la vidi sotto l’ombrellone. Scoprii che alla mamma piaceva tantissimo Gabriella Ferri, allora iniziai a girare sulla spiaggia con un mangianastri acceso che suonava Er barcarolo vaaa…. Cercavo di andare il più possibile davanti a quell’ombrellone. Poi la mia futura suocera mi chiamò: “Ah, bel ragazzo, vieni un attimo qua”. Da lì, piano piano, ho cominciato a stare sotto all’ombrellone. Poi è stato fondamentale Rodrigo Placidi che era il terzino sinistro dell’Anzio: prima di un allenamento me la presentò e lì è iniziato tutto».

La canzone La leva calcistica della classe ’68 è dedicata a lei o a Di Bartolomei?

«Molti pensavano fosse per me, per quel ragazzino con la maglia numero 7. Ma, come mi ha detto Francesco De Gregori, era dedicata ad Agostino».

Le manca, Di Bartolomei?

«Lo avevo conosciuto prima di arrivare alla Roma: un cugino di mia moglie mi aveva invitato a fare una partita di calcetto a Lavinio, vicino alla mia Nettuno, e c’erano lui, Bruno Giordano e Stefano Di Chiara: non stavo nella pelle, ero romanista da sempre, andavo a giocare una partita insieme a gente che già era la serie A. Ci siamo conosciuti lì, poi il giorno che sono arrivato in prima squadra è stato il primo a accogliermi. E poi è diventato il mio capitano, con tutto quello che abbiamo vissuto insieme: scudetto, finale di Coppa dei Campioni: veramente lo amo».

L’ultima volta che lo ha visto?

«È il mio rammarico. Poco prima che succedesse quello che è successo avevo organizzato una partita al palazzetto dello sport con tutti gli amici dello scudetto per raccogliere fondi per un amico rimasto paralizzato. Venne anche Agostino: era sereno, si rideva, si scherzava, non c’è stato nulla che potesse far pensare, non ci ha fatto capire cosa aveva dentro. Mi è rimasto quel rimpianto».

Ha tanti amici anche fuori dal campo. Uno è Venditti.

«Mi invitò sul palco a un concerto a Nettuno. Negli anni da responsabile del settore giovanile, ogni volta che andavamo a fare una finale, mettevo sul pullman le canzoni di Antonello. La prima volta lo chiamai e c’era sotto la sua musica, portò fortuna, vincemmo. “Ogni volta che parti, mi devi telefonare”, mi disse. Questa cosa l’abbiamo portata avanti per anni».

Lei ha anche allenato la Roma.

«Non l’ho allenata, l’ho traghettata. Nel 2005, il giorno del mio compleanno, ero a Cagliari a trovare i nipotini. Mi telefonò Rosella Sensi. E mi disse: “Abbiamo fatto una riunione e abbiamo pensato a te per guidare la Roma”. Ho capito cosa dovevo fare in quel momento. Ma è stato un anno particolare, ci siamo salvati a Bergamo con un gol di Cassano, avevamo davvero paura di retrocedere. E c’è un episodio…».

Be’, raccontiamolo.

«Quell’anno morì il Papa e invitarono tutta la squadra in Vaticano. Convocammo i giocatori per dirglielo. Intervenne Cassano: “Ma è obbligatorio venire?”. Io già un po’ arrabbiato, risposi: “Assolutamente no, se non vuoi venire, non vieni”. Dopo un po’ lui fa: “Però se non vengo non vorrei che poi i giornalisti…”. Non vi posso dire quello che gli ho detto, l’ho rovesciato. Ma con Antonio c’è un affetto profondo, ci vogliamo ancora oggi un bene dell’anima».

Con Mourinho che rapporto ha avuto?

«La prima volta che l’ho visto ero a Trigoria, stavo fumando una sigaretta con dei dipendenti. José è passato con questa macchinetta, una golf car. Ci ha visto, ci ha superato, poi mi ha riconosciuto: è tornato indietro per abbracciarmi, mi ha detto che mi aveva visto giocare a Lisbona. Abbiamo avuto un bel rapporto, anche se in quel periodo stavo facendo delle terapie. Quando ha avuto quattro giornate di squalifica è venuto in ufficio: “Bruno, mi farebbe molto piacere se potessi essere vicino alla squadra, in questo periodo”. Lo sento spesso, Ancelotti è un amico comune».

Ecco, Ancelotti: ha mai provato a portarlo alla Roma?

«Ma come potevi portarlo via Carlo dalle società dove è stato? Bayern, Chelsea, Real… certo la battuta gliel’ho fatta, anche l’ultima volta: “Dici sempre che sei della Roma, ma quando vieni ad allenarla?”».

Ci riproverà, a breve?

«Eh, adesso è al Real Madrid, oltre la battutina è difficile andare. Anche se con Carlo ho proprio un rapporto di famiglia. Sono stato a casa sua, con il papà, la mamma, prima di andare in Nazionale ho dormito da lui, siamo stati in vacanza insieme. Quando ha avuto l’infortunio al ginocchio dormivamo nella stessa stanza e mi mettevo sopra questo ginocchio gonfio così per cercare di allungarlo, di stenderlo. È un’amicizia, una di quelle vere».

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