È stato il suo erede. Sergio Campana, morto sabato all’età di 90 anni a Bassano del Grappa (martedì i funerali), indicò Damiano Tommasi come suo successore sulla poltrona di presidente dell’Associazione italiana calciatori, l’ente che aveva creato nel 1968 insieme a nove calciatori (tra cui Rivera e Mazzola) per tutelarli. Lo è stato dal 2011 al 2020, sia come riconoscibilità sia per peso politico, prima di diventare sindaco di Verona (dal 2022).
Damiano Tommasi, come è stato prendere il posto di Campana come numero uno dell’Aic?
“Un po’ una sfiga (ride, ndr). Sergio aveva messo l’asticella in alto. Ho provato a farmi guidare da quanto aveva fatto lui. Per me, per l’associazione e per gli atleti in generale è ancora un esempio”.
Si ricorda il vostro primo incontro?
“A fine anni 90. Sono entrato nel consiglio direttivo dell’Aic nel 1999, coinvolto da Demetrio Albertini, che pure all’epoca era tra i consiglieri. Subito ho visto in Campana una figura di riferimento. Lui sapeva entrare in sintonia con le persone, individuarle, appoggiarsi ai canali giusti per dialogare poi con i calciatori”.
Che rapporto avevate costruito nel tempo?
“Per me è stato come un padre, nel mondo del calcio. Il confronto con lui era costante. Quando ha lasciato la presidenza, dopo 43 anni, molti pensavano che avrebbe influenzato le scelte del successore. Invece mi ha lasciato libero di agire, con fiducia e senza mai far valere la sua autorevolezza. Mai una parola fuori posto, anche pubblicamente rispetto alle decisioni che prendevo. Avevamo una bell’intesa”.
Le ha mai raccontato come andò il 3 luglio 1968, quando fondò l’Aic in uno studio notarile di Milano insieme a nove calciatori?
“Più che quella giornata, mi ha parlato spesso di quello che accadde subito prima. Sergio era stato indicato come riferimento da uno di quei giocatori, Giacomo Bulgarelli, una testa pensante e una persona di grande spessore. Avevano giocato insieme al Bologna, la loro amicizia fu una sorta di lasciapassare per Campana nei dialoghi con chi non lo conosceva di persona. L’altra garanzia, per tutti, era rappresentata dal fatto che lui aveva studiato, si fosse formato e laureato in Giurisprudenza, diventando avvocato. Insomma, aveva le conoscenze per guidare l’associazione e farle centrare gli obiettivi fissati. Ma non fu così facile firmare l’atto di costituzione”.
Cosa successe?
“All’epoca non c’erano i cellulari. I club iniziarono a chiamare a casa dei calciatori che dovevano andare dal notaio con Sergio per creare l’Aic, provando a dissuaderli. Dissero loro di lasciar stare, che la nascita dell’associazione sarebbe stata un guaio per tutti. Invece oggi è un punto di riferimento per il calcio”.
Quando Campana si convinse a formarla?
“Lo aiutò Gianni Rivera. Doveva rinnovare il contratto con il Milan, lo accompagnò nell’ufficio dell’ente che allora consigliava i calciatori. Sergio vide che era accanto agli uffici della serie A, e si convinse: ‘Bisogna avere più autonomia’, disse”.
Perché è stato tanto importante per il calcio italiano?
“Lo ha cambiato introducendo riforme chiave. Con lui sono nati il professionismo sportivo, il fondo di fine carriera per i calciatori. Ma la riforma più impattante è stata quella del 2000 con l’ingresso di tecnici e atleti in tutti i consigli federali, compreso nel consiglio nazionale del Coni”.
Ha modificato la coscienza dei giocatori, grazie a lui sono diventati lavoratori.“Sì, con diritti e doveri che ne conseguono. Onori e oneri, nel vero senso della parola. Abbiamo attraversato negli anni i casi doping, scommesse. Ma Campana era credibile sia nel ruolo di difensore dei diritti sia come attento osservatore dei doveri”.
Quando l’ha visto l’ultima volta?
“Poco dopo la mia elezione a sindaco di Verona. Sono andato a trovarlo a Bassano, c’era anche la moglie. Già non stava bene, si muoveva di rado, ma la passione per lo sport era intatta. A casa sua c’era sempre la tv accesa sul tennis, il calcio, l’atletica e le Olimpiadi. Quella mattina parlammo tanto. La conferma che il nostro rapporto andava oltre il lavoro”.