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Denzel Dumfries: “Inzaghi mi ha cambiato. Voglio la Champions con l’Inter”

Intervista all’esterno nerazzurro: “Quando Ausilio mi chiamò stavo giocando a padel, arrivai e in borsa avevo solo due scarpe sinistre. So suonare solo “Tanti auguri”, ma imparerò la musica che viene dal Suriname. In Olanda ho una scuola per aiutare i bambini con bisogni speciali”

MILANO – In campo è serio e concentrato come un atleta del tiro a segno. Fuori, Denzel Dumfries sorride. Lo fa quando pensa alla compagna e ai loro figli. E quando parla dell’ultima scoperta: il sassofono. «Ho cominciato sei mesi fa. So fare Tanti auguri e poco altro, ma ci do dentro. Mi piacerebbe accompagnare De Vrij, bravo pianista. E voglio suonare la musica tradizionale del Suriname, il Paese di cui è originaria mia madre».

Calcio e musica. Altre passioni?«In Olanda, proprio con mia madre, ho aperto una scuola per bambini con necessità speciali, che hanno difficoltà a seguire i programmi. Vogliamo aiutare più persone possibile a realizzarsi, partendo da situazioni difficili. Ci lavorano in venti. In due anni abbiamo seguito settanta studenti. Li facciamo giocare, disegnare, cucinare».

Lei mette ancora il pollo nella pasta al pesto, come raccontò appena arrivato alla Pinetina?«I compagni italiani si indignavano e ho dovuto smettere. Prima la pasta, poi il pollo. Oggi la mia specialità sono gli spaghetti aglio, olio e tonno. Mi sto ambientando».

Com’è stato il suo primo contatto con l’Inter?«Mi chiamò Piero Ausilio mentre giocavo a padel. Mi disse di lasciare la racchetta e correre a Milano. Aveva già parlato con Mino».

Parla di Mino Raiola. Che ricordo ha di lui?«Un uomo dolce. Ci ho messo un po’ a capirlo. Vedendolo frenetico e preso col lavoro, avevo timore a chiamarlo. Un giorno gliel’ho detto e mi ha risposto: ma sei matto? Chiamami quante volte vuoi, anche di notte».

Lei è arrivato a Milano al posto di Hakimi, che aveva fatto una stagione eccezionale.«Achraf è fortissimo, ma non sentivo la pressione. Credo in me stesso e Inzaghi mi ha dato fiducia. Mi ha aiutato a essere più solido e a conoscere il calcio italiano. Non posso dire che sia un amico, perché è il mio coach. Però è una persona eccezionale, abbiamo un bellissimo rapporto. Anche se il primo giorno alla Pinetina non è stato il massimo».

Cos’è successo?«Pensavo di fare un paio di foto e stringere mani, invece mi hanno messo subito in campo. Ho aperto il borsone che avevo in auto e ci ho trovato dentro due scarpe sinistre. La destra ho dovuto farmela prestare».

Il video in cui balla Get Get Down di Paul Johnson sui social network accompagna ogni vittoria dell’Inter.«Mi ricorda una gran serata, un capodanno a casa mia. Darmian mi prende in giro perché avevo gli occhiali da sole. Ci prendiamo parecchio in giro in squadra, ora che ci penso. Siamo un bel gruppo».

Bastoni dice che preferirebbe giocare un’altra finale di Champions, piuttosto che vincere il 21° scudetto. Ha ragione?«Basto ha sempre ragione. Il campionato è importantissimo, ma perdere la finale a Istanbul nel 2023 non è stato facile. Non sono mai riuscito a riguardare la partita. Vogliamo un’altra possibilità e facciamo di tutto per conquistarla».

L’Inter in Serie A segna il doppio rispetto alla Champions, dove però difende meglio.«Ne abbiamo parlato, ma una spiegazione semplice non c’è. In coppa dobbiamo conservare lo spirito combattivo, ma facendo più gol. Ora però pensiamo alla Lazio, è fortissima».

Denzel. Come nasce il suo nome?«I miei mi hanno chiamato così per Denzel Washington. Ci hanno preso. È il mio attore preferito, sono fan di The Equalizer. Ed è uno degli uomini che più stimo. Non spreca una parola e passa messaggi positivi. È calmo e forte».

Le insegnanti a scuola dicevano che lei era “un bambino terribile”. Esageravano?«Avermi in classe non doveva essere facile. Ero rispettoso ma non riuscivo a stare fermo. Volevo giocare, saltare, lanciare, correre».

E le piaceva il Milan?«Mi piaceva Clarence Seedorf, anche lui del Suriname. Lo tifavo ovunque giocasse, a partire dall’Inter. Un altro mio eroe era Maicon, giocatore meraviglioso. Uno dei migliori esterni di ogni tempo».

È arrivato in un club professionistico a 18 anni dopo diversi rifiuti, fra cui quello del Feyenoord.«Ho avuto pazienza, lavorando duro. Sapevo qual era il mio sogno, fin da piccolo: la nazionale olandese».

Eppure, nelle giovanili, ha cominciato con la maglia di Aruba.«Sarò sempre grato al Paese di cui è originario mio padre per quella possibilità. Ma il futuro lo vedevo arancione. Lo scrivevo a matita sui muri della mia cameretta, vicino a schemi di gioco e foto di campioni, fra cui il mio idolo Vincent Kompany. Copiavo sulle pareti frasi che mi davano forza. La mia preferita: un obiettivo senza un piano è solo un desiderio».

Al Mondiale 2022 ha partecipato alla rissa tra i giocatori di Olanda e Argentina.«Troppe emozioni, troppa foga. A ripensarci oggi, l’Argentina ha meritato di vincere. Ma quel giorno la vedevo diversamente. Perdo raramente il controllo. L’ho imparato facendo kick boxing da ragazzino».

Era forte?«Me la cavavo, ma in famiglia il modello era irraggiungibile. Due miei cugini sono atleti famosi, uno è stato campione del mondo. Li ammiro. Gli sport di combattimento sono duri. E non parlo delle botte. Nel momento della verità, sul ring, non c’è la squadra con te».

Che padre è con i suoi tre figli?«Cerco di essere presente, comprensivo, connesso con le loro emozioni. Ci facciamo scherzi, giochiamo. E mi stupisco delle loro domande. Soprattutto del primogenito, che ha quattro anni».

In che lingua parlano?«In casa olandese, a scuola inglese e italiano. Le lingue sono una ricchezza, aprono porte. Un altro insegnamento di Mino Raiola».

Lei con l’italiano a che punto è?«Sto studiando, ma in inglese mi sento più sicuro. E devo stare attento a non usare mai le parole che mi insegna Barella…».

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