BRESSANONE – Eusebio Di Francesco, felpa del Lecce addosso, indica il grigio compatto delle nuvole e strizza gli occhi: “Lassù c’è una montagna. E sulla montagna c’è un campo. Ci alleniamo lì”.
Che fine hanno fatto i suoi famosi occhiali?
“Mi sono operato. Li uso solo per guidare la sera, o quando leggo. Ultimamente, soprattutto saggi sulla motivazione e sull’uso delle parole. L’ultimo si chiama Pensieri lenti e veloci, di Daniel Kahneman. Insegna a conoscere la nostra mente”.
Lo psicologo c’è sempre nel suo staff?
“Certo. Mi ha aiutato a superare le due retrocessioni in due anni all’ultima giornata, con Frosinone e Venezia. Botte su botte. Ho anche fatto un percorso con una società di comunicazione, per assorbire le sconfitte e trasmettere messaggi corretti ai giocatori”.
Quattordici anni dopo torna a Lecce, dove fu esonerato nel 2011.
“Il club di allora era in autogestione, oggi la società è solida. Io ero alla prima esperienza in Serie A da allenatore. Ho attraversato momenti belli e brutti, sono cambiato, e mi sento di stare ancora crescendo”.
Come fa?
“Resto curioso, amplio le mie vedute. Mi definivano integralista, ma non mi sentivo così. I giovani parlano di gioco e di costruzione, io non facevo eccezione. Ma il mio obiettivo è sempre stato il risultato, non l’estetica. Oggi cerco di mettere a loro agio i calciatori. Al centro non ci sono i moduli ma l’intensità. Non esistono più i giocatori che passeggiano. Il modello è il Psg: corrono tutti, senza prime donne”.
Il Lecce le chiede la salvezza, tutta Italia le chiede di fare giocare Camarda.
“Vediamo se è pronto. Di sicuro ha una gran fame, anche troppa. Si dispera per ogni gol sbagliato. Ma l’errore è parte del processo di crescita”.
Qualcosa che non sappiamo su Pantaleo Corvino?
“Prima di a parlare di calcio, passiamo mezz’ora a chiacchierare delle sue passioni. I quadri, le piante, soprattutto gli ulivi”.
Chi teme di più nella corsa alla salvezza?
“Mi incuriosisce Cuesta. Lo conosco poco, voglio studiarlo. Con lo stesso spirito guardo il calcio estero. Tanta Ligue 2 francese. Poi, ovviamente, Champions, Premier e Liga”.
Dopo avere ignorato tante offerte, sta finalmente pensando a un’esperienza all’estero?
“Guardo serie tv per migliorare l’inglese, ma non è il momento. In Italia, oltre ai figli, ho quattro nipoti. Mia moglie penso che mi seguirebbe”.
Ricorda il giorno in cui si è innamorato di lei?
“Avevamo 18 anni, la vidi a una festa pre matrimoniale in casa di amici. Era bellissima. Dissi al mio padrino di battesimo: vedrai che la convinco a uscire. Ed eccoci qua”.
Si sente ancora romanista?
“Sono legato ai tifosi e ai compagni di allora, primo fra tutti Montella. Ma la squadra del cuore resta il Pescara. Per il mio primogenito Federico è diverso. Totti lo faceva sedere sopra gli armadietti”.
Cosa farà da grande Totti?
“Il dirigente di club. Ovviamente per lui il massimo sarebbe la Roma. Ma prima forse gli farebbe bene provare altre strade. Io l’ho fatto: il team manager a Trigoria, poi per due anni ho gestito uno stabilimento balneare”.
Il celebre trattorino con cui spianava la sabbia ai bagni Stella d’Oro a Pescara esiste ancora?
“I nuovi gestori ne usano uno più comodo, su cui ci si può sedere. Ma l’attrezzo base resta il rastrello. Sul telefono ho come screen saver l’immagine di mio nipote Riccardo, che non c’è più, mentre mi aiutava a rastrellare. Ero maniacale. Sono della Vergine, sono pignolo”.
In quella spiaggia va ancora?
“Certo, è il mio mare. Ho diritto vita natural durante a una palma in prima fila centrale. La numero otto”.
Lei impone regole ai suoi calciatori sull’uso del telefono?
“Sono passato dalla hall dell’albergo e nessuno mi ha guardato in faccia, erano tutti sullo schermo. A cena, in squadra e in famiglia, pretendo condivisione: cellulari in tasca e si chiacchiera”.
Cosa cambierebbe delle sua vita finora?
“La mia testa nel momento in cui andai via da Roma, e alcune scelte sbagliato che ho fatto poi, solo per mia responsabilità”.
Qual è stata la sua impresa più difficile?
“Sulla semifinale di Champions, la ferita è aperta. Se solo ci fosse stato il Var … soprattutto al ritorno, per quel mani sul 2-2. Non mi passa. E della stagione dei quarti di Coppa Italia col Frosinone resta il rimpianto della retrocessione. Scelgo l’Europa League col Sassuolo”.
I calciatori le sono grati?
“Berardi a ogni gol mi dice “me l’hai insegnato tu”. Rifiutò di seguirmi a Roma, dicendo che al Sassuolo sarebbe stato più amato dalla società. Acerbi mi ringrazia per una lezione: lo tolsi dal campo al tredicesimo del primo tempo in amichevole. Se lo meritava”.
A quindici anni lei serviva ai tavoli nell’albergo di famiglia. È un’esperienza che hanno fatto anche i suoi figli?
“Una mano l’hanno data, ma i ragazzi di oggi sono diversi, devi chiedere loro di togliersi il piatto da tavola. Io ero un ottimo sparecchiatore. Mio padre a ogni brutto voto mi faceva trovare pronta la divisa di cameriere. E quando cominciai a giocare mi disse: se vuoi fare il calciatore, vai lontano, perché se resti a Pescara io ti faccio lavorare. L’hotel c’è ancora ma i miei sono anziani, lo abbiamo venduto”.
Lei ha aperto a Francavilla al Mare un centro di padel. Cosa ci trova di bello?
“È tattico. E la palla in qualche modo ti torna sempre. Fra ginocchia e anche, mi muovo poco, quindi nel tennis fatico”.
Le piace andare a vedere giocare suo figlio Federico, calciatore del Palermo?
“Lo vedo in tv. Non amo le tribune, sono piene di gente che ti ferma per parlare, spesso male degli altri. Amo il campo e la panchina. Altrimenti, meglio il divano”.
Si chiama Eusebio, come Eusebio. Ha mai conosciuto l’asso portoghese?
“Lo incontrai a Valencia, facemmo una foto insieme. Mio padre ci teneva, ma l’ho persa dalla memoria del telefono. Da allora, le foto me le faccio stampare dal mio match analyst. Della tecnologia mi fido poco. Soprattutto del Telepass. Colpa di Mangone, mio compagno alla Roma. Sulla sua Porsche, dimenticò di avere lasciato a casa la scatoletta grigia e sfondammo la sbarra. Da allora, rallento un chilometro prima. C’è scritto 30? Vado a 25”.
Cos’altro la spaventa?
“La cattiveria, ce n’è troppa in giro. I ragazzi si accoltellano e la gente intorno filma. Si parte da lì e si arriva alle guerre. Visitai il Kosovo con Tommasi, dopo il conflitto. Da allora il mondo non è migliorato. Da padre e da nonno, non accetto quel che sta succedendo ai bambini di Gaza”.
Chi è il suo idolo?
“Nelson Mandela. Ma invecchiando capisco che le basi me le hanno date i miei genitori. Mi hanno insegnato il rispetto per gli altri”.
A centrocampo, chi è il Di Francesco di oggi?
“Davide Frattesi. Se è indeciso fra rimanere all’Inter o partire, la soluzione gliela do io: venga a giocare in Salento, che si sta bene”.