TORINO — Michele Di Gregorio, chi le ha detto che la Juve voleva proprio lei?
“Il mio procuratore”.
Ci ha creduto?
“Gli ho chiesto di ripetermelo con calma”.
Ha avuto paura di non essere all’altezza?
“È stato più l’orgoglio di guardare indietro ai tempi i cui la Serie A e la Juventus sembravano lontanissime”.
Perché ha dovuto fare un giro così lungo, per arrivare?
“Dopo aver vinto lo scudetto Primavera con l’Inter pensavo di essere già pronto per la B, invece arrivavano offerte solo dalla C. Ho dovuto analizzare a 360°, non agire di impeto e convincermi che non mi stavo sminuendo. Mi sono detto: se queste sono le offerte, questo è il mio valore. Ho avuto bisogno di fare uno step alla volta”.
Ha mai dubitato di farcela?
“C’è stato un momento in cui qualcuno ci ha creduto più di me. A Pordenone, per esempio, mi ero sottostimato, dopo essermi sovrastimato a 19 anni. Il calcio giovanile genera false speranze. Se sei nella Primavera dell’Inter ti credi già giocatore, hai gli sponsor, le comodità, ti sembra tutto già fatto. Anch’io ero andato oltre, ma sono stato bravo a tornare indietro”.
Quindi non giudica troppo lunga la strada che ha fatto.
“Se ti cerca il Pordenone, è perché vali il Pordenone. E poi non ho mai preso in considerazione l’eventualità di andare in una squadra che voleva un portiere, ma solo in una che voleva Di Gregorio”.
Quindi si è reso conto di valere la Juve?
“Stavolta sì”.
L’Inter cos’è, oggi, per lei?
“Ci sono arrivato che non avevo ancora 7 anni e l’ho lasciata che ne avevo quasi 19. È un’esperienza che mi ha formato, perché mi sono stati messi a disposizione educatori prima che allenatori, che la differenza l’hanno fatta quando cominci a pensare che allenarsi è un sacrificio, quando vedi gli amici che vanno in gita, che cominciano a uscire la sera, che ti stai perdendo un sacco di prime volte. È stato educativo e mi ha preparato a entrare in uno spogliatoio di C dove il rapporto non era più con ragazzini ma con uomini di 34 o 35 anni per cui conquistare la salvezza è fondamentale per mantenere la famiglia”.
Dall’Inter si è sentito abbandonato?
“No. Nei cinque anni in prestito mi ha permesso di rimanere in piedi, tipo quando ero andato all’Avellino che subito dopo fallì. In fondo, se ho reciso il legame con l’Inter è stato per una furbata di Galliani, il numero uno, che ha voluto il diritto di riscatto perché credeva tantissimo alla promozione del ‘suo’ Monza e ha avuto ragione”.
Domenica a San Siro cosa proverà? Voglia di farla vedere a chi non ha creduto in lei?
“Non porto rancore. L’Inter ha fatto per me qualcosa che non potrò mai dimenticare, starmi vicino quando, a 13 anni, ho perso mio padre”.
Non c’è mai stata la possibilità di tornare in nerazzurro?
“Non me lo sono mai veramente aspettato. Se però fosse successo avrei voluto farlo dalla porta principale. La comparsa non l’avrei mai fatta”.
Titolare o niente, allora?
“Non ho mai detto a nessuno “vengo se mi garantisci di essere titolare”, ma “vengo se mi dici che vuoi esattamente me””.
Il salto dal Monza alla Juve non l’ha disorientata?
“Mi sono trovato subito a mio agio, tant’è che quando sono tornato dal ritiro ho detto alla famiglia: questo è il mio posto. Per assurdo, ci ho messo meno ad ambientarmi qui che altrove. Quando accompagno mio figlio Riccardo all’asilo e passo vicino allo Stadium, non posso fare a meno di pensare che sono felice”.
Però i tifosi non si sono ancora fatti un’idea di lei.
“Ho ricevuto pochissimi tiri e quindi è presto per un giudizio su di me. Sono contento di aver dato qualcosa con quella parata contro il Napoli”.
La Juve ha preso Di Gregorio perché è bravo coi i piedi: vero o falso?
“Lo sono più a livello tattico che tecnico: si tratta di fare un certo tipo di passaggio o di controllo, di una posizione da tenere. Di fare scelte di gioco, in pratica”.
Cita spesso la sua famiglia: ne vuole parlare?
“Mia mamma, mia sorella Angela, il mio zio paterno, la mia nonna materna: è un concetto più ampio. La vita mi ha tolto tanto, perdere il papà a 13 anni non è semplice, ma mi ha dato tantissimo attraverso tutte le persone che ho avuto attorno. Mia moglie Samantha l’ho conosciuta dieci anni fa e mi è vicinissima. Sono cresciuto tra persone presenti”.
Dà l’idea di essere un uomo sereno: conferma?
“Sì, ma con qualche momento di scontento, perché queste soddisfazioni avrei voluto condividerle con papà. Ho la sensazione che comunque lui ci sia sempre. Non so se è la mia testa a farmelo credere per farmi stare meglio, ma è così. Il mio primo figlio si chiama Marcello come lui”.
Lei è cresciuto a Corsico, hinterland milanese: è davvero dura la vita lì?
“Dura o no, era la mia realtà, la mia normalità, in un quartiere popolare che magari si può dire difficile, ma se ci nasci e ci cresci è il tuo mondo. I miei amici sono ancora tutti lì, ci torno ogni volta che posso”.
I soldi non le hanno cambiato la vita?
“È cambiata nella comodità, ma non nella mentalità. Il mio testimone di nozze, che è di Corsico, dice che i soldi non sono il mezzo ma il fine: il mezzo per dare una buona educazione ai miei figli, una casa confortevole, con spazi di un certo tipo in un quartiere di un certo tipo”.
Ci dice due persone fondamentali per la sua carriera?
“Una è il mio procuratore, Carlo Alberto Belloni, che mi ha detto mille volte di cambiare se avessi voluto fare carriera. Ma io ho sempre pensato se arrivo, arrivo a modo mio oppure non arrivo. I sogni ho voluto realizzarli senza snaturarmi né scendere a compromessi. L’altra è Luciano Castellini, che racchiude un po’ tutto il discorso che ho fatto prima sul settore giovanile dell’Inter”.
Lei sarà di sicuro tifoso dell’Inter, no?
“In realtà in famiglia erano milanisti, mentre io ho sempre ammirato più i giocatori che le squadre: Kakà e Abbiati, Zanetti e Julio Cesar, Buffon e Del Piero, la cui non reazione quando a Roma prese quello schiaffo da Cufrè ha per me un valore immenso. Ho ammirato Handanovic, è stato un sogno allenarmi con lui, avere i suoi consigli. Non ho mai capito perché si debba odiare uno solo perché è di un’altra squadra”.
San Siro visto da dentro com’è?
“Sono stato uno di quei ragazzini che scuotono il tendone della Champions quando parte la musichetta. La prima volta da giocatore ci ho vinto con il Monza ed è stata un’emozione indescrivibile, figuriamoci come sarà domenica, con la rivalità che crea un’atmosfera bellissima”.
Cosa sapremo della Juve, domenica?
“Non credo che ci dirà realmente chi siamo. Siamo una squadra nuova, inevitabilmente ci serve tempo”.
Lei è così calmo, così dolce: cosa ci fa con due orecchini e tutti quei tatuaggi? Non le dicono che sembra un tamarro?
“Ma io sono un tamarro!”.