ROMA – “Sono un pensionato di 83 anni, un uomo di sport a cui piace fare sport. Vado all’Aniene a muovermi un po’, poi nuoto venti-trenta vasche. Mio nipote Pietro, che ha 15 anni, mi ha dato una lezione sui 50 stile: ma non sa che l’ho fatto vincere…”.
Dino Zoff cammina sul prato dell’Olimpico, mentre un drone con telecamera lo riprende dall’alto. Sta lavorando a un docufilm sulla sua vita diretto da Giovanni Filippetto per Tunnel Produzioni, interverranno Francesco De Gregori, Maurizio De Giovanni, ma anche Bruno Conti e Marco Tardelli in un abbraccio all’Olimpico in cui non mancano le battute: “Sono ancora lucido, nonostante l’età: ma tu chi sei?” fa Dino a Marco, e la risata è quella di due amici che hanno attraversato il tempo.
Zoff, il portiere più leggendario è diventato un nuotatore?
“Lo sono sempre stato. Ho imparato in fiumi pericolosi, come il Natisone, proprio dove sono morti quei tre poveri ragazzi l’anno scorso”.
Non giocava anche a golf?
“Come avrebbe detto Sivori, mi vestivo da golfista e andavo in campo. Lui era così, innamorato degli artisti mentre i portieri non inventano un cavolo: quando incontrava qualcuno che gli diceva “ti ricordi, ho giocato contro di te?”, rispondeva: “Giocato? No, sei andato in campo contro di me””.
Chi sono i più grandi contro cui ha giocato?
“Ne ho incontrati tanti, Cruyff, Beckenbauer, Maradona, Platini. Pelé l’ho incrociato alla fine della carriera, a New Haven per il torneo del Bicentenario del 1976, lui era il capitano di una selezione americana. Nella strettoia che portava al campo Francesco Rocca cominciò a guardarlo estasiato, e non smise di ammirarlo per tutto il tempo che siamo rimasti là sotto. A un certo punto Pelé mi si avvicinò e mi fece: “Ma quello sta guardando dove picchiarmi in campo?””.
Lei disse a Totti: “Chieda a Gigi Riva cos’è davvero il calcio violento”: era veramente così pericoloso giocare ai vostri tempi?
“È un calcio vero anche adesso, il problema è che prevale il vittimismo. Ti tocco e vai per terra. Sento che sia necessario essere atleti, non si può rotolare per terra così facilmente. Il vittimismo arriva anche nelle scuole, se un bambino prende 5 è colpa del maestro. Prima non c’erano tante scuse”.
Cosa ricorda di quando era lei il bambino?
“Ero un po’ lo scemo del villaggio, in porta i grandi mi facevano buttare sempre anche se avevo i calzoni nuovi, poi hanno cominciato a considerarmi bravino. La mia generazione non poteva pensare di fare nella vita il portiere, chi arrivava alla serie C era un eroe: ci si divertiva, si faceva Tarzan sugli alberi, e si giocava a pallone anche cinque ore al pomeriggio”.
Ha detto una volta: “La mia vocazione è sempre stata di fare il portiere, dopo ho solo lavorato”.“È una passione che ho avuto da quando ero piccolo così, che poi è diventata ricerca della perfezione, trasformandosi in gioia. Una volta presi gol in campionato e spiegai a mio padre che era un tiro partito dal limite, imparabile, e non mi aspettavo che il giocatore calciasse da lì. Lui mi chiese: “Ma nella vita fai il farmacista o il portiere?””.
I tiri da lontano le costarono critiche feroci al Mondiale 1978.“Mi dicevano che ero vecchio, decisi di non parlare più con i giornalisti. Se cominci a difenderti con le parole ti sembra di essere finito in tribunale. Io avrei potuto anche pretendere dei risarcimenti per quello che avevo subito, ma ho preferito pensare a lavorare. Se avessi fatto la guerra magari non sarei arrivato al Mondiale dell’82”.
Anche Donnarumma vive fasi alterne, tra grandezza e critiche.“Ricordiamo sempre chi è Donnarumma: è lui ad aver vinto gli Europei. Se arrivi due volte ai rigori e il portiere li para, il merito è suo”.
Il ruolo è cambiato, non trova?
“Non sono contro le innovazioni, ma queste non devono diventare la priorità. Un portiere deve parare bene con le mani, se sa usare i piedi tanto meglio. Ma è possibile che di piede ormai tocchi più palloni del del centravanti? Siamo fatti così in Italia, una buona cosa ripetuta all’esasperazione diventa negativa. Per il Var ho litigato, doveva essere utile per episodi importanti, ormai interviene su tutto: grandi pene per stupidaggini. Ma tanto ormai io sono vecchio…”.
E ha vissuto un’epoca irripetibile.“Abbiamo vinto un Europeo nel ’68 in cui c’erano l’Urss, che riuniva il meglio del calcio ora diviso in 15 nazioni, e la Jugoslavia, sintesi di sei paesi attuali. Nel 1974 invece siamo andati via da Malpensa con il cellulare, che non è un telefono ma il mezzo della polizia”.
Italia-Brasile 3-2, parata su Oscar all’89’, palla bloccata sulla linea.“Non potevo respingerla perché lì davanti c’erano i brasiliani e non potevo tirarla via se non volevo dare l’idea che fosse entrata. Potevo solo tenerla lì. Per trenta secondi non ho saputo dove fosse finito l’arbitro, ho passato una paura terribile”.
Subito dopo, quel bacio a Bearzot rientrando negli spogliatoi.“Non era da friulani, questa manifestazione pubblica di sentimenti. L’abbiamo accettata, perché ormai l’avevo fatta, anche se non era nei nostri canoni. Ero suo fratello, un fratello minore di chi ha i grandi meriti di quel mondiale. Col suo comportamento, le idee: ero reduce dal fallimento del ’74, con lui abbiamo trovato una guida forte, che ci aiutava a tirar fuori il meglio mentre si prendeva le pallottole”.
Non si lasciò andare invece la notte del Bernabeu.“A 40 anni sapevo che era l’ultima vittoria, avevo raggiunto l’apice e ho preferito assaporare un bicchiere di vino, in camera, piuttosto che ballare con gli altri. Più giovani di me, oltretutto”.
Il ricordo del Mondiale in Spagna come s’è trasformato col tempo?
“Mi scalda e raffredda, pensando ai compagni di tante battaglie che non ci sono più. Paolo Rossi, Gaetano Scirea, mio vice alla Juve quando successe la tragedia nell’89: aveva una classe tale che gli permetteva di non essere brusco, brutale. Era leggero, eccezionale, e con una testa adeguata a tutto questo. Era più silenzioso di me, ma non aveva nemmeno bisogno di parlare”.
È malinconico anche il ricordo dell’addio al calcio?
“È stato la chiusura di una parentesi stupenda, quindi è triste. Ma ricordo bene che tra i tanti che sono venuti a salutarmi c’era anche Lev Jascin, leggendario portiere sovietico: dalla Russia mi portò un samovar gigante”.