Quando il 15 giugno del 1982 Luis Ramirez Zapata si trovò con il pallone tra i piedi a pochi metri da Ferenc Mészáros, il portiere dell’Ungheria, riuscì a fare gol. Poi iniziò a correre per il campo esultando come se non ci fosse un domani. Comprensibile, perché El Salvador in una fase finale dei mondiali non aveva mai segnato. Meno comprensibile guardando il risultato: l’Ungheria vinceva già 5 a 0 e alla fine ne fece 10. Resta dopo 42 anni il risultato più rotondo della storia dei mondiali. Zapata era il più pittoresco di quella spedizione, il più forte invece era El Magico Gonzalez. I numeri in campo giustificavano il soprannome. Ma gli piacevano, e tanto, alcol, cibo, donne, dormire: al Cadice, dove mise le tende, le sue abitudini stavano bene a tutti, soprattutto a uno che grazie a lui aveva trovato lavoro. Faceva lo ‘svegliatore’, in pratica si assicurava che El Magico si alzasse a orari decenti per andare ad allenarsi. Insomma, un tipo particolare, che quando sentiva odore di grande club con regole annesse – fece persino una comparsata con il Barcellona di Maradona in una tournée – gli veniva l’allergia. Il personaggione però El Salvador lo aveva in panchina. Il ct Mauricio ‘Pipo’ Rodriguez, l’unico uomo che da giocatore con un gol era stato capace di far scoppiare una guerra.
Fatti risalenti a tredici anni prima, nel 1969, alla vigilia dei mondiali messicani. Alla fase finale all’epoca si arrivava in 16, ma la partecipazione di diritto del Messico come ospitante aprì una finestra che fino ad allora era stata tradizionalmente occupata per il centronordamerica proprio dalla Tricolor. Un posto in palio, quattro gironi. El Salvador e Honduras vinsero i rispettivi per sfidarsi in semifinale. In quelle latitudini la passione per il calcio era ed è altissima, perfetto detonatore per le tensioni sociali. E tra i due paesi di tensioni ce ne erano parecchie. La situazione politica più o meno era simile. Governi non proprio democratici (i due presidenti erano anche generali a capo delle forze armate), enormi masse contadine in stato di povertà, latifondisti ricchi e potenti. Nel Salvador i contadini chiedevano una redistribuzione delle terre, cosa ovviamente non gradita alle alte sfere. E il vicino Honduras, molto più grande, di terra ne aveva di più. Una equazione semplice venne in mente al presidente del Salvador, Fidel Sánchez Hernández: favorire l’emigrazione verso il Paese vicino dei contadini in maniera da dare respiro alla situazione interna. Missione compiuta, tanto che l’Honduras, che non arrivava a due milioni e mezzo di abitanti, si trovò con una presenza salvadoregna quantificabile in trecentomila unità. Impossibile che non sorgessero dei problemi, e infatti…
Successe che anche i contadini honduregni iniziarono a chiedere la redistribuzione della terra, e il presidente Oswaldo Lopez Arellano, che non aveva nessuna intenzione di disturbare i latifondisti, ebbe l’idea di redistribuire quella lavorata dai salvadoregni, ricacciandoli nei propri confini. In pratica una deportazione, con i poveri salvadoregni che si ritrovarono malvoluti anche a casa loro, vista la insostenibile pressione economica e sociale venutasi a creare. Insomma, una polveriera. E due micce. La prima, i media del Salvador, che iniziarono a raccontare di violenze di ogni tipo subite dai connazionali in Honduras aizzando l’opinione pubblica. La seconda, il calcio. Le due nazionali cercarono di arrivare in extremis nelle gare di andata e ritorno: poche ore di permanenza, giocare e ripartire. Ma apparve subito chiaro che giocare una partita di calcio in quelle condizioni era impossibile. L’Honduras vinse la prima 1-0 in un clima a dir poco intimidatorio per i salvadoregni, tra vetri delle camere dell’albergo in pezzi, pneumatici del bus trinciati dalla folla inferocita e tanto altro.
Al ritorno la situazione, se possibile, fu ancora più tesa. Si parla di giocatori dell’Honduras costretti a salire sui tetti dell’hotel per sfuggire al lancio di tutto il lanciabile. Un ragazzo salvadoregno, che aveva il solo torto di fare l’accompagnatore della nazionale avversaria, fece l’errore di mettere piede fuori dal ritiro honduregno e morì travolto da una fitta sassaiola. Anche in quel caso il risultato non poteva che andare in una direzione: i calciatori dell’Honduras beccarono 3 reti ma tornarono in patria contenti per aver salvato la pelle. Tre a zero e uno a zero, ma nessuna differenza reti, la Fifa non lo prevedeva. Sarebbe stato spareggio. A Città del Messico, la sede scelta per la terza gara, la tensione era altissima, tanto che le autorità messicane schierarono a protezione dell’ordine pubblico quasi 2000 militari. Utili soprattutto nel post partita, quando honduregni e salvadoregni si cercarono – trovandosi – per scatenare una selvaggia guerriglia urbana. A differenza che nelle altre due circostanze, pur con un agonismo esasperato, favorito anche da un temporale che si abbatté sull’Azteca, lo spareggio fu una vera partita di calcio.
La cosa più bella la fece Cardona dell’Honduras, che con una splendida rovesciata siglò il gol del pareggio. L’uomo del destino però entrò in scena nel primo tempo supplementare: sul 2-2 El Pipo Rodriguez si avventò su un cross e con una scivolata avvicinò El Salvador alla prima qualificazione ai mondiali. Il sigillo arrivò a settembre nella finale contro Haiti. I caraibici iniziavano a mettere su la squadra che si sarebbe qualificata 4 anni più tardi per Monaco 1974, ma ancora non avevano la stella Emanuel Sanon, che in Germania avrebbe posto fine ad una lunghissima imbattibilità di Zoff nel giorno del celebre ‘vaffa’ di Chinaglia a Valcareggi. Prima dello spareggio contro Haiti però, di sangue sotto i ponti ne era scorso tanto. Diciassette giorni dopo la gara di Città del Messico infatti El Salvador ruppe gli indugi e invase l’Honduras. Il conflitto, che fu raccontato al mondo soprattutto dal leggendario reporter polacco Ryszard Kapuscinski, durò pochissimo, appena 4 giorni. Poi la mediazione dell’Organizzazione degli Stati Americani ebbe successo, ma intanto migliaia di persone erano rimaste sul terreno.
E rimasero anche degli strascichi. Se El Salvador partecipò ai Mondiale in Messico un anno dopo la Guerra del calcio, in Spagna nel 1982 ci arrivò in piena guerra civile, scaturita dai problemi sociali che i fatti con l’Honduras di anni prima non avevano certo migliorato ma acuito irreparabilmente. Al potere c’erano come al solito militari e latifondisti, dall’altra parte i guerriglieri del Fronte Farabundo Martì: il calcio sullo sfondo, tanto che per quel 10-1 contro l’Ungheria ci fu una tregua affinché tutti potessero vedere in pace la partita. Le classi privilegiate continuavano comunque a fare la voce prepotente, tanto che El Pipo Rodriguez fu costretto a chiamarne 20 invece dei canonici 22. I soldi dei due servivano infatti a potenti e famiglie per un tour nelle principali città spagnole. El Salvador, che a Messico70 non aveva fatto nemmeno un gol, tornò in patria dalla Spagna con la rete di Zapata all’attivo, ma anche con un carico imbarazzante di gol (13 in 3 gare). Qualche tempo dopo la macchina sulla quale viaggiava Luis Guevara Mora, il giovanissimo portiere di quella spedizione, fu ridotta peggio di un colabrodo da raffiche di mitra sparate da ignoti. Ma lui incredibilmente lo racconta ancora: uscì infatti illeso dall’attentato.
E Pipo Rodriguez, alla soglia degli ottanta, racconta ancora quel gol segnato al portiere dell’Honduras Jaime Varela. Varela come Odbulio, il capitano dell’Uruguay che fece versare lacrime e provocò suicidi togliendo insieme a Ghiggia e Schiaffino al Brasile un mondiale già vinto nel 1950. Come scritto da Osvaldo Soriano, il leggendario Obdulio, vedendo per le strade di Rio cotanta disperazione, si pentì dell’impresa. El Pipo invece per quel gol non ha mai mostrato segni di tristezza. Tutto sommato con ragione. In fondo tra El Salvador e Honduras la guerra del calcio in quel luglio del ’69 sarebbe scoppiata lo stesso. Anche senza il calcio…