“Dopo il malore in campo, mi sono chiesto: perché a me? Il cuore mi ha dato un segnale, ma era destino che mi salvassi”. Edoardo Bove si racconta e lo fa per la prima volta con una lunga intervista a Vanity Fair. Ripensa al malore che l’ha colpito il primo dicembre sul campo della Fiorentina durante la sfida di campionato contro l’Inter. Era il minuto 16, il giocatore che compie qualche passo e poi si accascia sull’erba. La corsa in ospedale, la degenza, l’operazione, il defibrillatore sottocutaneo e la sua nuova vita in attesa di notizie sulla sua eventuale nuova carriera.
«Ricordo davvero poco, che ero in campo e che a un certo punto ha cominciato a girarmi la testa come quando ti alzi troppo velocemente dal letto, ho avvertito una sensazione di spossatezza e basta – si racconta a Federico Rocca – Non ricordo di essere caduto. Mi sono risvegliato in ospedale, toccandomi le gambe perché pensavo mi fosse successo qualcosa al ginocchio, un incidente. Per me, all’inizio, non è stato difficile come per i miei cari: io non capivo nemmeno la gravità della situazione, pensavo di essere semplicemente svenuto. Loro invece sapevano di avere corso il rischio perdere un figlio, un amico, o di potermi rivedere in condizioni brutte».
Bove, 22 anni nato e cresciuto coi colori giallorossi della Roma, ha subìto un intervento per l’impianto del defibrillatore e il suo futuro calcistico da professionista (almeno in Italia) rimane in sospeso. Adesso è a stretto contatto con la squadra ma non più da calciatore, in quanto i protocolli in Italia non ammettono di poter riprendere attività agonistica a chi si è sottoposto a quel tipo di intervento. Grazie a una deroga richiesta alla Federazione, Bove può vivere tutti gli aspetti della quotidianità insieme ai suoi compagni della Fiorentina al centro sportivo Viola Park. Dal pranzo al rito dello spogliatoio. Insieme al tecnico Raffaele Palladino che ogni tanto, durante una sessione, gli cede il fischietto coinvolgendolo nelle esercitazioni anche se non da giocatore.
Gli chiedono se stia mancando il calcio e lui risponde senza alcun dubbio: «Tantissimo. Non solo quello della serie A, mi manca proprio giocare con gli amici. Non poter giocare è stato come perdere il mio amore più grande, posso spiegarglielo solo così. Adesso la sfida è provare a continuare a essere me stesso, sapendo però di avere perso una parte importante di me. Ho ancora qualche visita da fare, i medici devono incrociare tutti i dati». Dunque, cosa riserverà il futuro a Edoardo? «Se si decide di mantenerlo – riflette pensando al defibrillatore – in Italia non potrò giocare: qui da noi la salute viene prima dell’individuo, e non sto dicendo che sia una regola sbagliata. Ma all’estero sì, praticamente ovunque. Il calcio è troppo importante per me, non posso permettere a me stesso di mollare così. Io ci riprovo, senza ombra di dubbio. Vedrò anche come starò: se avrò paura, se non sarò tranquillo allora cambierà tutto. Mi possono dire quello che vogliono, ma l’ultima parola spetterà a me. Anche se decidessi di giocare all’estero, dovrei firmare un documento assumendomi la responsabilità di quanto potrebbe accadermi in campo. Non escludo affatto di poter togliere il defibrillatore: i medici mi stanno dicendo che c’è questa possibilità».
L’intervista prosegue tra riflessioni intime e stereotipi del mondo del calcio. Dunque la prospettiva. «Sono due gli scenari. Il primo: continuo a giocare a calcio. Il secondo: nel caso in cui non potessi più farlo, lotterei per per trovare un nuovo fuoco dentro di me, che mi possa rendere sereno. Quella è la cosa più importante. Il giorno in cui andando ad allenarmi non mi sentissi più felice, sarei il primo a dire “ciao a tutti. Ma non c’è dubbio, io giocherò a calcio».