Quell’inconfondibile voce che ha raccontato tante biciclette e tanti campioni, facendo svariate volte il giro del mondo, oltre che d’Italia (20) e di Francia (10), adesso delinea un confine più ristretto ma non meno profondo. “Un mese dopo essere andato in pensione mi è stata diagnosticata la sclerosi multipla progressiva”, dice Emanuele Dotto facendo il cronista di sé stesso, perché cronisti si è sempre. “Avevo 67 anni e 6 mesi, ora ne ho appena compiuti 73 e ogni giorno è un giorno guadagnato”.
Emanuele, com’è la vita, con questo peso addosso?
“Sono stato sette volte in Australia e altrettante in Cina, ma adesso il mondo lo vedo come il giardino della scuola elementare di Genova Quinto, dove trascorro il tempo in carrozzina ascoltando musica, leggendo e sopravvivendo. Ho avuto molto, e molto mi è stato tolto, però nel cambio ci guadagno. E ora trovo bella anche Alessandria”.
La proverbiale ironia di Dotto.
“Bisogna scherzarci un poco. Peggioro lentamente, ma senza prospettiva, e non ce la farei senza mia moglie Marina e mia figlia Emanuela. Il corpo sta andando dove vuole, la mente e la memoria per fortuna no”.
E neanche la voce, che “giocò” nel Real Madrid dei radiocronisti.
“A Tutto il calcio minuto per minuto c’erano maestri veri. Roberto Bortoluzzi: capace, colto e gentile. Massimo De Luca, un signore. Enrico Ameri, con quell’incredibile rapidità di parola e duttilità nel racconto. Sandro Ciotti, che commentando un clamoroso errore commesso in un Lazio-Milan disse:’Ha arbitrato il signor Lo Bello di Siracusa davanti a 80 mila testimoni’. Fuoriclasse. Oggi urlano tutti troppo, in radio e in tivù”.
Perché la gente vi amava tanto?
“Perché il campionato era la messa cantata della domenica, con tutte le partite in contemporanea: prima si andava in chiesa, poi il pacchetto dei pasticcini, infine il pomeriggio allo stadio o alla radio”.
La prima radiocronaca?
“Varese-Lazio 1-1, gennaio ’82: una nebbia spaventosa impedì di vedere i gol. Domandai la cortesia al dirigente del Varese, di nome Beppe Marotta, di scendere negli spogliatoi e informarsi sui marcatori. Così cominciò la nostra grande amicizia: sono il padrino dei suoi figli”.
Sarà andata meglio la seconda.
“Non proprio. Milan-Pro Cavese in B, peccato che nessuno mi avesse avvertito che ero incaricato del servizio. Bortoluzzi chiamava ‘Milano, Emanuele Dotto’, e io ero a casa mia. Papà stava ascoltando la radio e si spaventò a morte”.
Altre avventure al microfono?
“Mi toccò annunciare, per primo, che a Marassi era morto un tifoso del Genoa, Vincenzo Claudio Spagnolo detto Spagna, accoltellato da un ultrà del Milan: era il 29 gennaio 1995. Oppure, dopo un Atalanta-Avellino, primo tempo 3-0, risultato finale 3-3, alcuni esagitati bergamaschi misero a ruote all’aria l’auto della Rai. La Rai: ci sono rimasto dal 1980 al 2019”.
Non l’unico incidente della carriera.
“A Maceió, in Brasile, dove eravamo per il tennis, la nostra Dune Buggy diede il giro: bisteccone Galeazzi fece da airbag umano, lui, il sottoscritto e il collega Marco Fiocchetti ne uscimmo illesi”.
Però gli inizi furono sulla carta stampata.
“Era il giugno 1976, collaboravo con il Corriere Mercantile di Genova e arrivai per caso in Vespa insieme a mio fratello Matteo (noto e bravissimo giornalista Mediaset, ndr) sul luogo dove le Brigate Rosse avevano appena ucciso il giudice Francesco Coco e due uomini della scorta, in salita Santa Brigida. Presi di tasca il gettone telefonico e dettai il servizio al giornale, a braccio, cioè senza scrivere”.
Poi, la Rai?
«No, il Giornale di Montanelli, edizione genovese. Nella lettera di assunzione, il direttore fece scrivere: “Si assume il giornalista professionista Emanuele Dotto…”. Dissi garbatamente che non avevo ancora superato l’esame, e Montanelli rispose: “Se non lo passi non ti prendo”. Lo passai».
Come nascevano le celebri citazioni dotte di Dotto?
“Ho sempre amato visitare musei e chiese. A Lerma, il mio paese, c’è un meraviglioso dipinto quattrocentesco di Barnaba da Modena: mi chiedo perché la gente vada alle Maldive, invece di visitare la chiesa di San Secondo ad Asti. Il giorno della finale di Usa ’94 non ero di servizio, però avevo l’accredito: preferii noleggiare un’auto e raggiungere il Kimbell Art Museum di Fort Worth, nel Texas, per ammirare I bari di Caravaggio. Ricordo le carte nella fusciacca di un baro: 7 di cuori e 6 di fiori”.
Lerma, provincia di Alessandria: il paese dove ha vissuto Moana Pozzi.
“Una ragazza sveglia e bravissima, andava sempre a messa. La sua mamma Rosanna, la donna più bella di Lerma, era amicissima di mia mamma Rosetta. Moana a 14 anni vinse il suo primo concorso di bellezza: Miss Fungo. Voleva fare l’attrice, era molto intelligente”.
Al paese nacque anche la vocazione giornalistica?
“Tutto merito di zio Emanuele, sacerdote. Era anche detto “il prete del giornale rosa” perché leggeva sempre la Gazzetta. Quando c’erano il Giro o il Tour, dall’altoparlante della parrocchia di Orsara Bormida si alzavano le voci dei radiocronisti che riempivano la valle”.
Si può sintetizzare una vita in una frase?
“Ho visto, ho guardato, ho raccontato, mi sono divertito”