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Ezio Luzzi: “Io, l’ultimo moicano di Tutto il calcio, litigai con Maradona perché lo chiamavo paisà”

La voce storica della celebre trasmissione radiofonica: “Con Diego poi diventammo amici. Ameri era il più bravo, Ciotti lo soffriva. Rozzi bucava le gomme ai tifosi e per Anconetani io portavo jella”

Ezio Luzzi, 91 anni, storica voce di Tutto il calcio minuto per minuto, è vero che è nato in uno stadio?

“Sì, a Santa Fé, in Argentina, il 10 dicembre 1933. Mio padre era il custode e avevamo diritto all’appartamento all’interno dell’impianto”.

Perché l’Argentina?

“Mio padre Cesare, originario di Terracina, e mia madre Elettra, romagnola, anni prima avevano lasciato l’Italia per cercare fortuna in Sudamerica”.

Che ricordi ha di quel periodo?

“Nessuno. Avevo tre anni. Rientrammo in Italia dopo un mese di nave. A Santa Fé ci sono voluto tornare nel 1978, durante il Mundial argentino, per vedere dov’ero nato”.

Ma quelli che hanno più di quarant’anni ricordano il suo “Scusa Ameri, sono Luzzi” alla radio, dai campi della serie B di Tutto il calcio minuto per minuto.

“Ho dato dignità alla provincia italiana. Ovunque andassi venivo accolto come un re, perché se veniva Luzzi voleva dire che quella era la partita più importante della giornata”.

Del nucleo fondatore lei è l’ultimo ancora in vita.

“Sono morti tutti. Guglielmo Moretti, Roberto Bortoluzzi, Sandro Ciotti, Enrico Ameri, Paolo Valenti. Cominciammo a trasmettere nel 1960”.

Chi ebbe l’idea?

“Guglielmo Moretti. Era stato in Francia, dove si era imbattuto in una trasmissione radiofonica che aggiornava i risultati dagli stadi di diversi gli sport. Propose di introdurla in Italia ma solo per il calcio”.

Ricorda la sua prima radiocronaca?

“Sampdoria-Lanerossi Vicenza, serie A”.

Non è stato sempre la voce della B?

“No, prima avevo fatto dieci anni di serie A”.

E come finisce in B?

“Un giorno Moretti in riunione dice: “Dobbiamo ringraziare Ezio che da questa settimana racconterà il campionato cadetto”. Lo guardai stranito: “Che cavolo sta a dì?”. Mi aveva messo davanti al fatto compiuto”.

Perché non le aveva detto niente?

“La serie B non la voleva fare nessuno”.

Ricorda la prima partita?

“Un Pisa-Livorno. La cabina radiofonica era situata alla sommità di un enorme palo di ferro per raggiungere la quale bisognava salire i gradini aiutandosi con le mani”.

E come finì?

“Male per il Pisa. Infatti alla fine dall’alto vidi la folla inferocita ondeggiare sotto di noi, col fonico aspettammo un bel po’ prima ridiscendere da quella scala”.

Com’era la provincia italiana?

“Affamata di calcio. Ovunque si mangiava benissimo”.

Le provinciali erano guidate da presidenti vulcanici

“Una volta il Pisa perse tre volte di fila e Romeo Anconetani disse pubblicamente che io portavo jella. Prima di ogni partita spargeva il sale sul terreno di gioco”.

Com’era Costantino Rozzi, il patron dell’Ascoli?

“Viveva nei pressi dello stadio ed era infastidito dal parcheggio selvaggio attorno alla propria abitazione. Non esitava perciò a bucare le gomme delle auto dei tifosi”.

Ma portò l’Ascoli a sfiorare l’Europa.

“In apparenza non sapeva niente di pallone, ingaggiare Carletto Mazzone rappresentò il suo colpo di genio”

Angelo Massimino, il patron del Catania, l’ha conosciuto?

“Si faceva le iniezioni di insulina contro il diabete al ristorante. Era sanguigno. Un giorno cacciò a male parole una troupe televisiva che si era intrufolata nel locale”.

Com’è entrato in Rai?

“Grazie a un corso di giornalismo a Urbino. Il rettore, Carlo Bo, mi mise in contatto con Moretti, i due erano amici. La Rai muoveva i primi passi, c’erano praterie”.

Fu subito assunto?

“No, inizialmente collaborai anche col Corriere dello Sport, diretto da Antonio Ghirelli. E intanto seguivo i corsi da radiocronisti”.

Che tipo di corsi?

“Ci portavano a San Pietro la mattina presto e ci dicevano fate la cronaca dell’Angelus del Papa. Oppure ci facevano accomodare in tribuna stampa allo stadio: “Simulate la cronaca della caduta di un aereo sulla folla”. Poi invariabilmente bisognava aggiungere la formula “i familiari delle vittime sono già stati avvertiti”.

Oggi non si usa più?

“Oggi si banchetta sulle tragedie. E chiunque con un telefono in mano si sente giornalista”.

Che Rai era?

“I corsi erano affidati a Sergio Zavoli, Paolo Valenti, Niccolò Carosio, professionisti esigentissimi. Il capo dei radiocronisti era Vittorio Veltroni”.

Il padre di Walter?

“Walter l’ho tenuto in braccio”.

Che qualità deve avere un radiocronista?

“Senso del racconto, ritmo, capacità di trasmettere le emozioni. Spiegare dove sta il pallone, come si muovono i giocatori”.

Non sono cose scontate?

“Oggi veniamo imbottiti di informazioni inutili su assist, gol fatti, biografie dei calciatori. Ma a chi frega?”.

Chi è stato il più bravo?

“Enrico Ameri era un trascinatore eccezionale. Una mitraglia”.

Ciotti invece?

“Era più aulico, più colto, però le sue frasi rotonde non sempre venivano capite dagli ascoltatori”.

Provenzali?

“No, lui era acqua fresca”.

Dallo studio comandava Roberto Bortoluzzi.

“Napoletano, bonario, alla mano con noi inviati. Era il figlio dell’ingegnere che a Milano aveva costruito la sede della Rai”.

Tra Ameri e Ciotti c’era rivalità?

“Ciotti soffriva il fatto che Ameri fosse il numero uno. Diceva: io ho fatto il liceo, Ameri è solo un maestro elementare”.

Contavano queste cose allora?

“Contavano per Ciotti”.

Che caratteri avevano?

“Ameri era metodico, arrivava allo stadio due ore prima, con un quaderno di appunti. Ciotti si presentava all’ultimo momento, trafelato, senza un’annotazione”.

Lei ha lavorato con entrambi per una vita.

“Per la Nazionale eravamo noi tre: Ameri faceva la radiocronaca, Ciotti la tribuna stampa, io il bordo campo”.

Che flash le viene in mente?

“Una volta in Portogallo Ciotti e Ameri rimasero in albergo a giocare a scopone, mentre io andai al casinò, persi i miei soldi, non ne avevo neanche per pagare il tassista che all’alba mi aveva riportato in hotel…”

E come finì?

“Ameri e Ciotti erano ancora lì, con le carte in mano. I soldi me li prestò Ameri, era generoso, spendeva quello che guadagnava”.

Nella suo biografia “Tutto il calcio minuto per minuto” lei scrive che Ameri veniva dalla Repubblica di Salò.

“Era stato sergente nella Rsi. Dopo la guerra, quando c’erano i comizi dei comunisti, le autorità lo costringevano a stare a casa. Era figlio di un funzionario di polizia”.

I giornalisti allora erano divinità.

“Non tutti. Ciotti e Ameri di sicuro”.

Pure lei era una star.

“Sì, nelle città della B mi correvano dietro. Molte stelle le ho conosciute quando non erano ancora famosi, tipo Paolo Rossi. Tempo fa ho incontrato Massimiliano Allegri, mi ha abbracciato: io l’ho incrociato quando stava ancora in B”.

Che ricordi ha della notte al Bernabeu nel 1982?

“Gli Azzurri erano in silenzio stampa. Al novantesimo rincorsi Claudio Gentile, ubriaco di gioia. Farfugliò: “Non posso parlare!” “Come non puoi parlare, è finita!. Sei campione del mondo”.

Quel calcio era migliore?

“Era calcio vero”.

Oggi non lo è?

“E’ tutto finto, atletico, fatto di passaggi e passaggini”.

La gente ha nostalgia del campionato più bello del mondo.

“Lo so, perché mi scrivono. Al ristorante i camerieri mi riconoscono. E pensare che io sono in pensione dal 1998”.

Maradona l’ha conosciuto?

“Mi fece fare uno scoop, annunciandomi che andava al Napoli”.

Davvero andò così?

“Lo incontrai a New York nel giugno 1984, dove ero con la Nazionale. Lo chiamavo paisà, visto le comuni origini argentine”.

Paisà?

“Quando andammo a Stoccarda per la finale di Coppa Uefa del Napoli, noi giornalisti viaggiavamo al seguito della squadra, lo salutai: “Ciao paisà”. Maradona saltò su. “Come ti permetti?” Ci fui un diverbio. Poi capì. Siamo stati amici”.

Il contatto con i calciatori era diretto.

“Quando Diego segnò con la mano al Mundial messicano, Argentina-Inghilterra, il massaggiatore Carmando ci fece entrare nello spogliatoio, a me e Galeazzi. Diego era raggiante: “E’ stata la mano di Dio”, ripeteva.

Quanti Mondiali ha seguito?

“Otto”.

E Olimpiadi?

“Otto. Ad Atlanta ho rischiato di morire: la bomba scoppiò a pochi metri da me. Chiamai subito Roma, sono stato il primo al mondo a dare la notizia”.

Una vita consacrata al lavoro.

“Lavoro ancora, ho un’emittente, Radio Elle, che ha sede alla Camilluccia. Vengo in redazione ogni giorno”.

Sua moglie è stata molto paziente?

“Rita Marcucci, è morta tre anni fa. Le devo molto. Li ha cresciuti lei i miei due figli, Paolo, che lavora a La 7 e Laura, ingegnere. Ho tre nipoti”.

Come si sente?

“Come l’ultimo moicano”.

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