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Fabio Pecchia: “Il Parma è mille culture, la sua forza è la leggerezza”

L’allenatore dei gialloblù: “Uno svedese non è un giapponese,
per allenare uso un linguaggio diverso, non solo una lingua. Con i giovani serve pazienza e fiducia. E un giorno alla settimana lo dedico ai giochi di gruppo”

Fabio Pecchia, 51 anni e tre promozioni. L’ultima con il Parma che oggi è la squadra più giovane della Serie A, con quattro punti, una vittoria col Milan, e giocatori da cinque continenti.

Come si allenano sedici nazionalità diverse?

«Cercare di mettere insieme culture così differenti, all’inizio, è più importante del fare tattica. Un giapponese non è uno svedese, anche solo per come si relaziona alle gerarchie, perché il giovane non si alza da tavola prima dei più anziani. Il linguaggio deve essere diverso, non solo la lingua. Negli allenamenti parlo sempre italiano, nei colloqui individuali no, per quanto mi è possibile ovviamente».

Lei è partito da Coverciano, poi è stato all’estero con Benitez, ha seguito Bielsa a Leeds e allenato in Giappone. Il nostro calcio è provinciale?

«No, assolutamente, il problema non è questo. Andare all’estero mi ha dato tanto, ho visto metodologie, strutture e abitudini molto diverse. Il punto è il rapporto con i giovani, perché dalla Spagna all’Inghilterra si anticipano i tempi e si mettono in campo. È evidente che un giovane non ha esperienza, ma ha altre cose e io mi concentro su quelle. Ogni età ha il suo fascino, però essere giovani non è un limite».

Cosa serve con i ragazzi?

«Fiducia e pazienza. Si devono sentire sicuri di poter sbagliare, poi è chiaro che parliamo dell’errore e che diamo le linee sui comportamenti. La fiducia è che se vuoi che migliorino allora più giocano più possono farlo, la pazienza è che ci vuole tempo sapendo che tra valorizzare e bruciare c’è un confine sottilissimo. Da allenatore devi combinare la crescita individuale, il gioco e la vittoria, perché sai che passi dal risultato e anche loro devono dar peso a quello».

La forza del Parma?

«La leggerezza, che non è mancanza di serietà, ma capacità di essere concentrati su quel che facciamo adesso, senza zavorre. Se riusciamo a mantenerla ci aiuterà. Dobbiamo salvarci, questo è l’obiettivo, facendolo anche per una città che ha ritrovato la Serie A e che l’ha festeggiata tanto con noi. Mi piace andare al campo alle 7 e 30, cominciando dalla colazione insieme, perché questo è un posto bello».

L’aiuta essere stato calciatore?

«Io ero fastidiosissimo quando non giocavo e comprendo il fastidio degli altri. Quindi non chiedo ai giocatori di essere felici, ma di continuare a lavorare con il gruppo, perché quello che sto “togliendo” a uno, lo sto “dando” ad un altro, non me lo sto prendendo io».

Quanto sono diversi i calciatori oggi?

«I social hanno cambiato soprattutto il modo di stare insieme, questo mi interessa. Ho delle figlie della stessa età, non è che non lo capisco. Quando stavo a Bologna ci mettevamo in 15 a giocare a carte, oggi questo non succede più e non lo puoi replicare. Però, più o meno una volta a settimana, facciamo “il giorno del gioco”, dal ping pong a giochi senza frontiere, l’aspetto ludico è formativo».

Era meglio fare il calciatore?

«Quando giocavo pensavo solo a fare gol, se vincevi eri contento, se perdevi era colpa del mister. Allenare è un lavoro molto più complicato, impegnativo, ma per questo molto più bello. Quando in una squadra ognuno riesce a mettere qualcosa a disposizione degli altri si prova una soddisfazione unica, così come la solitudine, ovviamente, nelle domeniche più brutte. Anche a Verona, dove vivevo sotto contestazione continua, mi sono formato».

Il suo Giappone?

«Fantastico. Poi non ho retto la distanza dalla famiglia, ma è stato una scoperta. Dal cibo al rispetto che hanno per le cose, i giocatori puliscono gli spogliatoi, hanno un’idea di collaborazione incredibile».

La chiamano ancora “avvocato” per la laurea?

«Sì, fu Boskov il primo, quando ancora studiavo. E da lì è stato un continuo “abuso di titolo”. Ci ho messo dieci anni, mentre giocavo, e penso che sia più faticosa una laurea di una Champions perché da calciatore lavori per quello, mentre lo studio, per altro con mattoni tremendi da leggere, ti porta in un altro mondo, soprattutto a quell’età».

Poi ha studiato un po’ di psicologia per la tesi a Coverciano.

«Ho scoperto Paul Watzlawick e Carl Rogers, mettere la persona al centro. D’altra parte quando intorno a te ci sono 60 individui, come capita al Parma dove c’è una grande struttura, devi tenerne conto. Qui, nello staff, ci anche due psicologi, con cui lavoriamo».

I suoi genitori vengono alle partite?

«Sono venuti per le ultime della stagione scorsa. Mio padre, come sempre, mi dice di mettere un difensore in più, mia madre di non arrabbiarmi tanto. Con mia moglie e le mie figlie, qualche anno fa, abbiamo preso casa a Bologna, è una città viva, un modo di stare insieme, e i servizi funzionano. Io non potevo farle trasferire ogni volta».

Qual è il suo sogno?

«Vivere questa carriera e godermela, perché facciamo un mestiere bello. Poi oltre la salvezza con Parma, vincere lo scudetto con il Lenola, il mio paese».

Ha detto che il calcio è musica. In che senso?

«Sotto tanti aspetti, per il ritmo, intanto. Anche quando si gioca, i giocatori devono percepire lo stesso ritmo, rallentando e accelerando quando serve, insieme. Poi perché la musica trasmette emozioni e anche il calcio deve trasmetterle. Infine mettiamo spesso la musica perché abbassa il livello di stress. Non do consigli però: ricordo sempre che prima di una partita alla Juve io ascoltavo Pino Daniele, ma quasi non lo sentivo perché Davids aveva sparato a palla nelle sue orecchie Rocky. Prima ognuno ha la sua canzone poi in campo si canta insieme».

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