TORINO — Francesco Farioli non ha mai sfidato una squadra italiana in una partita ufficiale: “Una volta tanto, capirò ciò che si dice sull’altra panchina”. Lui, giovane cervello in fuga già da un po’, sta seduto su quella dove sono passati Cruijff, Michels, Kovacs, Van Gaal: “C’è così tanto da fare, qui, che non riesco nemmeno a godermi il privilegio di stare di stare in un club del genere. Ma l’Ajax è un punto d’arrivo, non una tappa: non c’è molto di meglio in giro”. Questa è la storia di un ragazzo che a 18 anni voleva fondare un partito e a 36 sta provando a ricostruire un club devastato dalla crisi tecnica ed economica recente: “Stiamo ancora rimuovendo le macerie e nel frattempo gettiamo le nuove fondamenta”. Giovedì sera affronterà la Lazio in Europa League.
Farioli, com’è la storia del partito?
“Ho sempre voluto prendermi le mie responsabilità. Da ragazzo mi interessavo della cosa pubblica, del bene comune e non mi faceva dormire il pensiero che all’estero l’Italia non mostrasse il suo volto migliore. Avevo già in testa che mondo avrei voluto lasciare ai miei figli, che poi era il mondo di mio nonno Mario, un uomo tutto d’un pezzo per il quale la parola data valeva più di qualsiasi contratto. Volevo fondare un partito di persone per bene, era il mio sogno, forse la mia utopia. Mi è mancato trovare ragazzi della mia stessa età e con le mie stesse motivazioni, in compenso mi vennero proposti tanti compromessi. Ma se devo fare qualcosa, non lo posso fare tradendo i miei principi”.
È cocciuto?
“Sono coerente ma so cambiare idea. Uso spesso la metafora del fiume: sa che deve arrivare al mare, ma troverà ostacoli, deviazioni. Le idee si evolvono, cambiano, assumono sfumature diverse: spesso ne ho abbracciate di opposte rispetto a quelle da cui ero partito”.
Breve riassunto: lei è stato portiere nelle serie dilettantistiche toscane, a 21 anni ha smesso di giocare e cominciato a allenare proprio i portieri. È stato nello staff di De Zerbi nel Benevento e nel Sassuolo, poi ha scelto di mettersi in proprio (e De Zerbi non gradì) cominciando dalla Turchia e poi passando a Nizza. Perché da laggiù?
“Se fossi rimasto in Italia, adesso non sarei qui: mancava lo spazio, sono andato a cercarlo dove ce n’era. All’inizio fare il globetrotter è stata una necessità, però adesso è una scelta. Ho avuto opportunità per rientrare, ma il mio percorso professionale e personale credo ormai sia questo. Ho allenato in quattro nazioni con quattro culture e quattro lingue diverse, è un’esperienza che mi ha allargato le visioni. Quando sarà il momento di tornare, porterò con me un tesoro”.
Com’è cominciata la sua storia?
“Da ragazzo mi sono tolto le mie soddisfazioni barcamenandomi tra la Promozione e la Seconda Categoria toscane finché, tra i 19 e i 21 anni, ho cominciato a fare fatica a trovare squadre che mi facessero giocare e a mantenermi gli studi. È in quel periodo che Paolo Galardi, un mio vecchio allenatore dei portieri, mi ha indirizzato su una strada diversa: mi propose di entrare nel settore giovanile della società dove lui allenava in prima squadra e a 21 anni mi sono trovato a dover decidere se fare l’allenatore o il giocatore. Ho fatto due stagioni in Eccellenza e una in serie D, nello staff eravamo in tre e le cose da fare tantissime, per cui lo spirito di iniziativa mi ha portato a andare oltre ai tiri ai portieri. Ho cominciato a lavorare sui video, a studiare la tattica e piano piano sono cresciute le mie responsabilità”.
Le ambizioni politiche le ha messe da parte?
“In fondo la mia idea di partito l’ho trasferita nello staff, formato da persone che abbiano il mio stesso modo di lavorare e idee come le mie ma che siano complementari con i miei limiti, che mi completino dove non sono bravo abbastanza: ci sono due spagnoli, un italiano, un inglese, un turco e un finlandese, tutta gente che ho conosciuto lungo la strada. In senso più ampio, all’Ajax c’è una comunità intera da gestire, perché questo è un club in cui la gente si identifica. Se fossi stato allenatore di questa squadra a 18 anni, chissà quante persone mi sarei tirato dietro, nel mio partito dell’utopia”.
Si può fare politica dalla panchina?
“Io ragiono come se in un posto stessi per sempre, anche se per sempre non sarà. Sarei stato così anche in politica, diciamo che è un approccio poco populista alle cose. Fino a ora sono rimasto al massimo un anno e mezzo nello stesso club, ho sempre trovato situazioni non semplicissime. Vorrei cominciare a raccogliere oltre che seminare, però non vivo con l’incubo dell’esonero. Ho fatto battaglie per dare il bianco agli spogliatoi, di modo che i giocatori abbiano più piacere di stare al campo, o per avere un nutrizionista, che arricchirà il club anche quando non ci sarò più, e non per avere l’ala che magari mi avrebbe fatto vincere l’ultima partita. Il mio obiettivo è lasciare il posto di lavoro migliore di come l’ho trovato, perché comunque dobbiamo accettare di essere di passaggio”.
Qual è la cosa che sa fare bene?
“Sistemare casini”.
L’ha imparato laureandosi in filosofia?
“Al liceo scelsi lo scientifico perché volevo fare ingegneria aerospaziale. Avevo desiderio di esplorazione. Nel triennio feci però fatica nelle materie scientifiche e rimasi invece affascinato da una professoressa che aveva un modo di insegnare unico, mi verrebbe da dire contagioso. Avrebbe potuto essere la protagonista de L’ora di lezione di Massimo Recalcati. Avrei voluto essere capace come lei di far maturare dentro le persone un’opportunità per pensare. Di domande me ne sono sempre poste, ma a 18 anni non sapevo cosa avrei fatto da grande: perciò scelsi qualcosa che mi facesse crescere, quindi filosofia. Gli sbocchi lavorativi erano due: o l’insegnamento o le risorse umane, di fatto nel mestiere che sto facendo ho riunito le due cose”.
Se la chiamano allenatore filosofo pensa a una presa in giro?
“Può essere una definizione sarcastica. ‘Quello vuole fare il filosofo’ non è mai una frase simpatica. Ma non mi reputo un filosofo, solo una persona a cui piace farsi domande sapendo che non tutte hanno una risposta. Sono uno molto pratico: citando Platone, devi portare le tue risposte dal mondo delle idee al mondo delle cose”.
La sua tesi è sull’estetica del calcio e il ruolo del portiere: perché scelse quell’argomento?
“Mi sembrava la sintesi perfetta dei miei interessi. Ho avuto la fortuna di aver trovato un professore che non so se mi ha dato fiducia o se magari pensava di mandarmi a schiantare. Farioli, mi disse, si ricordi che qui siamo all’Università degli studi di Filosofia e non alla Gazzetta dello Sport, ha due mesi per portarmi il lavoro, ma se non è quello che voglio, poi si fa come dico io. Gli consegnai la tesi quasi fatta, capì l’idea, le sue parole con cui la presentò prima della discussione furono emozionanti”.
Qual è il calcio che le fa battere il cuore?
“Un allenatore deve avere vestiti per ogni occasione, io mi esalto se segniamo dopo aver fatto 60 passaggi di fila, e mi è successo, ma anche se c’è da soffrire chiusi in area a fare catenaccio. Mi piace avere una squadra che giochi con la palla, che abbia relazioni e fluidità di gioco, che sia aggressiva e che recuperi il pallone in zona avanzata, ma anche che abbia la capacità di fare blocco nei momenti di sofferenza. L’estetica del calcio è la ricerca di emozioni e di attimi per certi versi eroici”.
E il portiere come si inserisce in tutto questo?
“In genere è visto come un’isola, ma per me è un giocatore in più”.
L’Ajax è la storia del calcio e ne ha scritto l’estetica.“Sono ben consapevole del momento storico in cui l’Ajax era ed è tuttora, con problemi finanziari di troppo e due anni di risultati negativi. Però penso che questa società sia la mia scarpa perfetta, la sua cultura mi rappresenta molto e al tempo stesso c’è da mettere dentro cose che non sono nel suo Dna, come trovare piacere nella sofferenza, dare un senso di collettività più ampio, accettare il fatto di non essere per forza i più belli”.
Vuole insomma portare un tocco di calcio all’italiana? Si sente italianista?
“Qui entriamo nel campo degli stereotipi. Sono malato di tattica? Sì. Speculatore? No. Lavoratore? Sì. Ma la definizione di italianista mi sfugge. E penso al mio ruolo con una visione un po’ più ampia”.
Vale a dire?
“Cinque anni fa andavo ai colloqui e per il 95 per cento parlavo di tattica e metodologia di allenamento, oggi mi rendo conto di quanto importante sia la gestione risorse umane. Non esiste all’interno di una società una figura più centrale dell’allenatore, è l’ingranaggio attorno a cui ruotano gli altri, sta a contatto con i giocatori, con il personale, con i dirigenti e rappresenta il club davanti a stampa e tifosi: siamo facilitatori di processi, siamo quelli che abbiamo la necessità, anche se non sempre le capacità, di essere aperti a 360 gradi perché gli stimoli ci arrivano da tutti i lati. Dobbiamo centralizzare le informazioni e delegare le competenze”.
Riesce a godersi il piacere di stare su una panchina così carica di storia?
“Il godimento dello status o del ruolo è difficile, perché se ti fermi un attimo a pensarci vieni investito dal peso stesso del club. È un privilegio giocare in uno stadio sempre tutto esaurito, però riesco a godermelo poco, non quanto vorrei. La cosa bella di essere qua e che non c’è tempo per poter dire: che bello essere qua”.
Quali sono i suoi rapporti con il guru Van Gaal, l’unico grande ex che ancora lavori per il club?
“È stato coinvolto nella scelta di assumermi. È un uomo geniale, di intelligenza ideologica e pratica notevole, di brillantezza intellettuale, personalità e carisma. Durante la partita per i 125 anni del club ha detto davanti a tutti una frase che non mi ha lasciato indifferente e che poi mi ha ribadito con un messaggio, che vi leggo: ‘Meriti questa panchina ed era il momento giusto per dirtelo. Come sai non mento mai, se l’ho detto è perché lo penso’”.
Chi sono gli allenatori che le piacciono, attualmente?
“Guardiola, Gasperini, Bielsa, De Zerbi. E sono contento di incontrare Baroni, che è bravissimo”.
Quando cominciò a allenare, dove riusciva a immaginarsi?
“Se mi avessero detto che sarei stato l’allenatore dell’Ajax ci avrei riso sopra. Se mi avessero detto che ne avrei allenato i portieri forse sì, ci avrei creduto. Quando decisi di cambiare ruolo, sei anni fa, mi misi davanti allo specchio e mi chiesi: vuoi vincere la Champions rimanendo nello staff di un grande allenatore o provare a diventare l’allenatore del Sassuolo? Ho scelto la seconda strada e sono andato ben oltre. So che non sarà sempre possibile bruciare le tappe, che ci saranno passaggi a vuoto. So dov’è il mare, ma non so quale mare sarà. Ho comunque una certa simpatia per le situazioni incasinate”.
E fra cinque o dieci anni dove si vede?
“Mi auguro di non cambiare, perché sono parecchio coerente con me stesso. Ma non mi faccio scorrere l’acqua sotto i piedi, a costo di reinventarmi. Sono un appassionato della vita, non ho la certezza che tra cinque o dieci anni farò il mestiere che faccio oggi”.