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Finale Champions, Dalmat: “I francesi non me ne vogliano, ma dico forza Inter”

L’ex calciatore di Psg e Inter parla della finale di questa sera: “La squadra di Luis Enrique attacca e difende bene, ma i nerazzurri fin qui sono stati indistruttibili”

MONACO DI BAVIERA – Stephan Dalmat vive a Lens, la città di sua moglie. Hanno comprato casa, “stiamo benissimo”. Fa il marito, il papà, e fa incontri con i calciatori delle giovanili, a cui racconta la sua storia, fatta di cadute rovinose e recuperi miracolosi. Per lui, che ha giocato sia nel Psg sia nell’Inter, quella di questa sera sarà più di una finale.

Ha visto la finale di Coppa di Francia fra Psg e Reims?”Non l’ho vista. Il divario di livello fra le due squadre era troppo ampio, davo per scontato che avrebbero vinto i parigini. Così, il calcio non è un bello spettacolo. Stasera a Monaco sarà diverso”.

A cosa deve prestare attenzione l’Inter?”Il Psg ha quattro giocatori fortissimi lì davanti: Barcola, Doué — che mi ricorda Yamal — e Dembélé. Il centrocampo è meno solido. I parigini giocano come il Barcellona, ma hanno una difesa molto più forte. Dietro, non c’è paragone. E Donnarumma è un fuoriclasse”.

Chi pensa che vincerà sabato?”Luis Enrique ama il possesso e ha giocatori che sanno saltare l’uomo, ma l’Inter ha esperienza e un carattere incredibile. In questa Champions ha dato l’impressione di essere indistruttibile. Credo che l’Inter si difenderà e colpirà con le sue frecce: Dimarco, Thuram, Dumfries. E con la classe di Lautaro”.

Per chi farà il tifo?”Qui in Francia mi insulteranno, ma tiferò ovviamente l’Inter, a cui sono rimasto legatissimo. Le partite dei nerazzurri le guardo tutte, vado almeno dieci volte l’anno a San Siro. A Parigi non sono mai andato allo stadio”.

La sua esperienza come giocatore del Psg non è andata bene.”Il progetto era interessante, basato sui giovani. Ma dopo due mesi è cambiato l’allenatore, il clima ne ha risentito. Ha voluto altri giocatori, come se noi che già c’eravamo non andassimo bene. E in inverno me ne sono andato”.

Che ricordo ha dei suoi due anni e mezzo a Milano?”Un periodo bellissimo. Non ho vinto scudetti né coppe, ma sono stato bene. Ho vissuto anche il dolore del 5 maggio. Eravamo forti. Era un onore indossare quella maglia. Ancora oggi, a Milano, i tifosi mi abbracciano per strada”.

Alla Pinetina la chiamavano “Joystick”. Com’è nato quel soprannome?”Colpa di Seedorf. Regalò cappellini con la visiera a tutti i compagni: a me ne diede uno della PlayStation. I compagni dicevano che in allenamento facevo i numeri da videogioco”.

Lasciare l’Inter è stato un errore?”Un enorme errore, sì. Temevo che non avrei giocato abbastanza. Cúper e Branca mi rassicurarono, ma non li ascoltai. Lo stesso fecero Seedorf e Ronaldo. Finii in prestito al Tottenham, capii subito di avere perso una cosa bella, ma ormai era tardi”.

Ha detto di aver avuto al massimo cinque amici veri fra i compagni in carriera. Almeno uno era all’Inter?”Amico è una parola difficile. Mi sento vicino a Toldo, ci sentiamo due o tre volte l’anno. Vedo volentieri Bobo Vieri, Ventola, Vieri e Cordoba: un grande. Altri li ho persi per strada”.

È difficile costruire legami sinceri nel calcio?”Difficilissimo. C’è competizione, si viaggia, si cambia, si compare e si sparisce. Inevitabilmente, ognuno segue il suo percorso. È uno sport di squadra, ma le traiettorie di vita sono individuali”.

Se potesse dare un consiglio al giovane Dalmat, cosa gli direbbe?”Di stare più attento al fisico. Di curarsi, gestirsi. Bastano pochi mesi di stop per compromettere una carriera”.

L’incidente in scooter del 2017, dopo il ritiro, la lasciò in coma per sei giorni. Cosa ricorda del risveglio?”Niente. Buio totale. Ero quasi morto, e quando mi sono ripreso per sei giorni interi non avevo memoria. Mentre mi operavano, il mio cuore si è fermato due volte. Sono un miracolato”.

Le piacerebbe allenare?”Me lo chiedono spesso. Ora mio figlio ha quattro anni, inizia ad andare a scuola, quindi ho un po’ di tempo libero. Ho ricevuto una proposta per allenare una squadra di quindicenni, è un impegno che fa per me. Mi basta un po’ di coraggio, vediamo”.

Qual è il suo sogno nella vita?”Che mio figlio stia bene. E che io stia bene abbastanza a lungo per potere essere utile per lui. Ne ho passate tante: gli infortuni, l’alcol, l’incidente. Ho capito che quando non c’è la salute, il resto non conta”.

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