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Florin Raducioiu: “Le urla di Capello e le flebo misteriose prima della partita. Gli sfottò a Mai dire gol? Non segnavo perché avevo perso la testa per una fotomodella”

Intervista all’ex calciatore romeno, che racconta la sua vita, dalla dittatura di Ceausescu fino all’accademia del Barcellona, che ha appena aperto a Bucarest

Dalle tinte livide della Romania di Ceausescu al bianco acceso delle luci degli studi televisivi, passando per il rosa (inquietante) delle flebo che gli davano negli spogliatoi. La vita di Florin Raduciou è una tavolozza piena di colori, dove le facce scure di Fabio Capello, che dalla panchina gli chiedeva più impegno nel Milan, si avvicinano alla satira dalle sfumature brillanti della Gialappa’s Band, che lo rese protagonista assoluto della rubrica “Questo lo segnavo anche io”.

Raducioiu, lei è nato nel 1970 a Bucarest, che ha lasciato nel 1990 per venire a giocare in Italia.

“Sono stato un bambino felice, giocavo a pallone nel cortile di casa, vicino all’albero di pesche. Ma la gente intorno a me faceva la fame. Mia madre era commessa dell’Alimentara, i supermercati comunisti, enormi e sempre vuoti. Tutto era razionato: il pane, il latte, lo zucchero, il burro. Papà ogni tanto riusciva a portarci un chilo di carne o un barattolo di Nutella dai negozi in centro in cui andava la nomenclatura romena, quelli del Comitato centrale. Faceva l’elettricista, si muoveva in bicicletta perché mancava sempre la benzina ed era un grande appassionato di calcio. Dopo due figlie femmine sono nato io, sperava che diventassi un giocatore professionista e mi ha portato ai provini della Dinamo Bucarest, dove mi hanno preso”.

Perché a vent’anni scelse il Bari?

“Mi voleva anche l’Anderlecht, in Belgio, ma non ho avuto dubbi, anche per i consigli dell’allenatore della Dinamo, Mircea Lucescu, grande conoscitore del vostro calcio. Da quando mi sono reso conto di quanto si vivesse male in Romania – avevo 14 o 15 anni – l’Italia era il mio sogno. Era il Festival di Sanremo, che tutti noi cercavamo di vedere, era il campionato più bello e difficile del mondo. Una decisione intelligente: una città meravigliosa, il mare, la gente calorosa e quello striscione ‘Raducioiu, Bari ti ama’ che mi trafisse il cuore”.

L’anno dopo, al Verona, tutto andò storto.

“Un disastro. La squadra retrocesse, io sbagliai tanti gol e divenni il capro espiatorio. Avevo 21 anni, mi ero innamorato di una fotomodella che mi stravolse la vita, giocai veramente male”.

La Gialappa’s Band la prendeva in giro in Mai dire gol. Lei era una presenza fissa nella rubrica ‘Questo lo segnavo anche io’.

“All’inizio mi dava fastidio: ‘Cazzo, questi qui mi stanno distruggendo l’immagine’. Poi ho cambiato idea. In fondo in quella classifica ero in ottima compagnia: c’era il grande Gianluca Vialli, Klinsmann dell’Inter, perfino Batistuta. Ed è stato un modo per farmi conoscere dal grande pubblico: bene o male, basta che se ne parli. Qualche anno dopo ho ringraziato pubblicamente I ragazzi della Gialappa’s per tutta quella pubblicità e perché mi hanno dato lo stimolo per migliorarmi”.

E infatti nella stagione successiva, 1992/1993, segnò 13 gol in Serie A. Era al Brescia dove, lei ha rivelato l’anno scorso, “prima delle partite ci facevano le flebo con un liquido rosa”.

“A gennaio 2023, quando è morto Vialli, Dino Baggio si è spaventato e ha raccontato tutto quello che gli hanno dato in carriera. In una trasmissione in Romania me lo hanno chiesto e io, da uomo sincero, ho parlato di quelle flebo, che i massaggiatori ci somministravano mettendo la boccetta sulla stampella. Mi sono sentito con Fabio De Nard, allora medico del Brescia, mi ha detto che era vitamina D, per garantirci una migliore resistenza allo sforzo. Dopo le flebo mi sentivo proprio bene, più forte. Mai preso nulla del genere altrove, soltanto al Bari ci davano delle pillole la sera prima della partita, come ha detto anche il mio ex compagno Massimo Brambati”.

E poi venne il Milan, dove incontrò il suo idolo, Van Basten.

“Purtroppo non ho mai giocato con Marco, già stava combattendo con l’infortunio alla caviglia che poi lo ha costretto al ritiro. Lo avevo affrontato da avversario, ma averlo come compagno di squadra era tutta un’altra cosa. Il primo giorno in cui entrai nello spogliatoio del Milan e lo vidi, per poco non me la feci addosso per l’emozione. E poi ricordo ancora quando tornai a Milanello dopo Romania-Galles 2-1, la partita che ci qualificò ai Mondiali del 1994 con un mio gol decisivo. Van Basten fu il primo a venirmi incontro per abbracciarmi: un riconoscimento che non dimenticherò mai. Il Milan ti regala un’aura che ti circonda per tutta la vita, perché ti dà la possibilità di giocare con i più grandi”.

In quella stagione, però, non ebbe rapporti facili con l’allenatore, Fabio Capello. I problemi nacquero quasi subito, a ottobre.

“Giocai in nazionale al mercoledì, contro il Belgio, e segnai anche un rigore. Negli ultimi minuti della partita Grun, difensore che giocava nel Parma, mi colpì su un piede. Capello voleva schierarmi titolare la domenica dopo a Foggia ma io gli dissi che la caviglia era troppo gonfia. Lui si incazzò ma io fui categorico e addirittura mi rifiutai di partecipare alla trasferta. Un errore che ho pagato”.

Due mesi dopo, però, Capello la schierò titolare nella finale della Coppa Intercontinentale col San Paolo, a Tokyo.

“Il pallone decisivo sfuggì dalle mani del portiere, Sebastiano Rossi, e perdemmo 3-2. Giocai male, ma nei quattro o cinque giorni precedenti avevo avuto sempre mal di stomaco, non riuscivo a dormire, un jet lag impressionante. In quell’anno al Milan mi è mancata un po’ di determinazione, per questo ho litigato spesso con Capello che con quel suo mascellone mi urlava sempre: Radu, devi avere più palle!”.

E così l’anno dopo è stato ceduto all’Espanyol di Barcellona. Con il danese Christian Poulsen, il montenegrino Stevan Jovetic e l’olandese Justin Kluivert lei è uno dei quattro calciatori ad aver giocato in tutti e cinque i principali campionati europei: Italia, Spagna, Inghilterra, Germania e Francia.

“Ero irrequieto, sempre con la valigia pronta. Scoprire paesi e culture diverse piaceva a me e anche alla mia ex moglie, Astrid, che ama esplorare, come tutti gli olandesi. Una passione che mi ha reso un uomo migliore: ho amici dappertutto, parlo cinque lingue, conosco Londra e Barcellona come le mie tasche, amo Stoccarda, una città stupenda, educata ed elegante. Montecarlo poi è come fosse casa mia, ci ho vissuto dieci anni”.

Il record dei giramondo è suo. Poi c’è anche un altro primato.

“Con Messi e Mbappé siamo gli unici tre calciatori ad aver segnato nella stessa partita di un Mondiale nei tempi regolamentari, nei supplementari e nella serie finale dei rigori. Io ci sono riuscito nei quarti di finale di Usa 1994 con la Svezia, che purtroppo alla fine ci eliminò. È vero, quella nazionale non ha vinto nulla, ma è entrata nel cuore di tutti i miei connazionali: centinaia di migliaia di persone scesero in strada quando battemmo la Colombia e gli Stati Uniti nel girone e poi l’Argentina negli ottavi di finale. Noi siamo e saremo per sempre la ‘Generazione d’oro’ del calcio romeno: per il trentesimo anniversario Netflix ha prodotto un film sulla nostra storia e abbiamo giocato una partita contro una selezione di stelle del resto del mondo nello stadio della Steaua Bucarest: 57 mila spettatori e tre milioni di incasso. Abbiamo deciso di devolvere 300 mila euro alle scuole in cui ciascuno di noi giocatori ha studiato. E abbiamo creato anche un profumo ‘Pasadena 94’, col nome della città dove vincemmo quelle partite: è il nostro luogo sacro”.

Ma anche il suo addio alla nazionale non fu indolore.

“Dopo il disastroso Europeo del 1996, nel momento migliore della mia carriera, mandai a quel paese tutti, compreso il mio agente Giovanni Becali, che adesso è il procuratore di Man e Mihaila, i due attaccanti del Parma. Mi sono fermato a 21 gol in 40 presenze. Se avessi continuato, ora sarei io il capocannoniere di tutti i tempi della Romania e non Hagi e Mutu, che hanno segnato 35 reti ma giocando un’infinità di partite. Ero proprio una testa matta”.

Non si direbbe oggi, vedendola commentare le partite in tv.

“Sono diventato l’uomo immagine di Antena 1, la prima televisione commerciale del mio paese, che ha preso i diritti per i Mondiali del 2026 e del 2030. Faccio l’opinionista ma non solo: ho in programma dieci interviste a ex grandi calciatori che hanno partecipato almeno a un’edizione dei Mondiali. Tra un mese parto per gli Stati Uniti, andrò anche a Los Angeles, al Rose Bowl di Pasadena, il nostro mitico stadio, per realizzare un mini reportage. A Bucarest invece con l’imprenditore Marius Pavel, mio grande amico, ho appena aperto un’accademia del Barcellona, dedicata ai ragazzini dagli otto ai dodici anni, è venuto a inaugurarla il presidente del club, Joan Laporta. Nei progetti futuri vogliamo costruire un grande campus, con terreni da calcio e hotel”.

I suoi rapporti con l’Italia sono ancora stretti?

“Ci vivono i miei due figli. Alessandro abita a Brescia, Andrea a Ventimiglia, anche se lavora a Montecarlo, dove fa il manager per una catena di ristoranti. E poi ho conosciuto la mia nuova compagna Andreea, con cui mi sposerò prestissimo, a Milano, dove lavorava al consolato romeno. Nel mio destino c’è sempre l’Italia, un paese che ci fa innamorare tutti”.

Florin Raducioiu gioca ancora a calcio?

“Pochissimo, anche perché ho paura di farmi male e non ne posso più di medici e fisioterapisti. Non ho nostalgia del pallone, mi manca soltanto la sensazione che provavo quando segnavo. Credo proprio che in Accademia, quando i ragazzini avranno finito di allenarsi, ne piazzerò uno a destra e uno a sinistra: loro mi passeranno il pallone e io tirerò in porta. È il mio sogno: fare gol senza grandi sforzi”.

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