Un allenatore che a fine partita dice: «Tutto bene, è mancato soltanto il gol» è come un medico che, a visita terminata, diagnostica: «È in salute, gli manca soltanto il respiro». Così Paulo Fonseca, sull’orlo di un personale abisso, continua a ballare fuori tempo. Vince e s’infuria con i suoi calciatori, perde o mal pareggia e li assolve: continuate così, facciamoci del male. Il destino gli dà appuntamento venerdì sera a Verona, la Samarcanda del Milan, e porta con sé un panettone che potrebbe non scartare. La situazione non è né disperata né seria. Mal che vada Fonseca se ne andrà con l’ingaggio di un contratto triennale e il Milan troverà un altro capocomico.
Il tormentato arrivo di Fonseca
Di matrimoni senza passione né futuro se ne celebrano tanti. Al ricevimento gli invitati scommettono sulla durata, il banco paga molto poco dai tre mesi ai sei, per fare fortuna bisogna immaginare che la scintilla arrivi a scoppio ritardato. Questa storia ha una miccia lunga, ma da petardo. In estate, allontanato Pioli, si era allestita una partita di ciapa no. La società voleva Lopetegui ma (davvero?) aveva rinunciato per l’ostilità dei tifosi. Gli ultrà, come da intercettazioni telefoniche, erano divisi: qualcuno aveva suggerito De Zerbi proprio mentre l’ala dura andava a pretendere Conte (già in viaggio verso Napoli). Ibra propendeva per Van Bommel e questo già doveva far capire molte cose. Non è chiaro chi fosse il buontempone che fece uscire il nome di Gallardo, detto Napoleon.
Quella maschera di Zorro
Alla fine sbucò Fonseca. E la platea ammutolì. Non gli si poteva rimproverare niente: non la presunta vigliaccheria di Lopetegui, non l’egolatria di Conte, neppure la rissosità di Gallardo. Ma che cosa si poteva dire di buono su di lui? La sua stagione migliore, l’unica vincente, l’ha trascorsa in Ucraina, allo Shakhtar, dove non ha fallito quasi nessuno. Lì conquistò campionato, coppe, una seconda moglie e l’inedita allegria che lo rese famoso per essersi presentato a una conferenza stampa mascherato da Zorro, il costume dei bambini poveri quale è stato, quello facile per le mamme: una striscia di stoffa nera con due buchi, una pezza sulle spalle, un cappello in testa e il gioco è fatto. Fosse così facile far divertire San Siro.
Un allenatore nel quale ha creduto mai nessuno
La sensazione è che nessuno abbia creduto a Fonseca. Non la società, qualunque cosa ci sia dietro la sigla e dentro le stanze, se mancano perfino le chiacchiere e il distintivo. Non i giocatori, che non hanno temuto il bastone né desiderato la carota: entrano ed escono dalla formazione titolare come da un ristorante in chiusura dove si è entrati senza avere fame. Non i tifosi, che non hanno mai sentito il palpito generato dal messia e ora lo compatiscono. Non i commentatori, che da una panchina mediatica hanno sempre avuto soluzioni meno confuse. A Pioli non si perdonava di perdere i derby e perdere in Champions. Fonseca ha vinto il derby, ha battuto il Real e va avanti in Champions, può essergli fatal Verona? Come no.
Se Fonseca sbaglia nessuno fa scudo ai suoi errori
Dicono, con una delle frasi più abusate di questa stagione, che «non è entrato nella testa dei giocatori». L’impressione è che abbia bussato, varcato la soglia e trovato altre stanze vuote, inquilini che avevano preparato il trasloco e qualche squatter rimasto per usucapione. Nessuno in buona fede può sostenere che Maignan e Theo Hernadez siano gli stessi, per impegno e risultati, di tre anni fa, né che Leao non sia invece, purtroppo, il medesimo. È una beffa che sia proprio lui, il primo dei non eletti, a scagionarlo con l’alibi fasullo: «Ci vuole tempo, ma stiamo cominciando a capire». Chi osserva il calcio sa che il tempo non è concesso a nessuno (tranne a Gasperini, ma se resta a Bergamo) e chi osserva il Milan sa che non ci sta capendo più niente nessuno. Quando Mihajlovic volle silurare Diego Lopez mise in porta il sedicenne Donnarumma e non lo tolse più. A Berlusconi in visita a Milanello lo annunciò dicendo: «Se non le va, mi esoneri». Camarda non può pungolare Morata, può soltanto prenderne il posto o li bruci entrambi. Fonseca può sbagliare, ma non c’è nessuno a fare scudo ai suoi errori. Gli hanno fatto notare che nell’88 Sacchi aveva i suoi punti quando Berlusconi lo confermò. Ha risposto di non aver bisogno dell’appoggio della società, che poi sarebbero i cartelli “torno subito” e la tigre che si specchia e non si vede riflessa. Fonseca aveva uno schema di gioco (il difensore aggiunto abbassando un centrocampista, i terzini altissimi, tanto possesso palla) che ha snaturato. Ha la tendenza a litigare con un giocatore chiave (alla Roma fu Dzeko). Ha una forma rara di sincerità e perfino, parrebbe, di onestà intellettuale. Gli manca soltanto il gol. E, da allenatore del Milan, il respiro lungo.