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Garrincha e Pasolini, quella partita immaginata sui campetti della periferia romana

All’inizio degli anni ‘70, il fuoriclasse brasiliano viveva nella capitale con la moglie. Era scappato dal Brasile dei militari e anche dal calcio. Nonostante l’alcolismo accettava di giocare partitelle di pallone. E il suo ultimo campionato lo disputò tra i dilettanti del Sacrofano

Chi vincerà il mondiale in Messico? Una banale richiesta di pronostico si alza dalla platea del glorioso teatro Sistina di Roma. E tanto basta per procurargli malinconia. Lui di mondiali con il Brasile ne ha vinti due, e da protagonista assoluto. Ma del mondiale del 1970 a Manoel Francisco dos Santos, Mané, meglio conosciuto come Garrincha, non importa granché. Neanche il suo proverbiale scatto può ormai permettergli di inseguire il tempo della gloria. Quello è passato lasciando spazio quasi solo ai tormenti. Pelé, Tostao, Rivelino, Gerson e Jairzinho: in Messico giocheranno loro, e poco importa se sono tutti numeri 10 e se il portiere Felix sarà protetto appena da un paio di pretoriani. Quei 5 sono talmente forti che potranno vincere il mondiale fregandosene della difesa. Dove giocava lui, ora c’è Jairzinho: è giovane, tecnico, velocissimo, meno istintivo ma sicuramente con più senso della squadra.

Garrincha è troppo vecchio: 37 anni, è da 4 che non gioca in nazionale, ma soprattutto da 3 che non fa una partita all’altezza della fama. Avesse qualche anno di meno, avesse ingurgitato meno cachaca, 54° alcolici tirati fuori dalla canna da zucchero, chissà… Magari il ct Mario Zagalo gli darebbe fiducia: in fondo ai bei tempi del Botafogo si intendevano alla grande. Uno con il suo tatticismo su una fascia, l’altro con i suoi dribbling elettrici sull’altra. E magari la fiducia gliela avrebbe data anche Joao Saldanha, uno che sa scrivere di calcio (fa il giornalista) e ne capisce tanto visto che faceva anche lui il ct del Brasile. Era stato allenatore di Mané ai tempi magici del Botafogo. La Seleçao in Messico ce l’ha portata lui, solo che sull’aereo per Guadalajara non ci è mai salito. Si dice che abbia osato sfidare il totem Pelé, più facile che lo abbiamo condannato le sue idee di sinistra, poco compatibili alla giunta militare che comanda in Brasile.

Ai militari neanche Mané è simpatico, tutta ‘colpa’ di Elza Soares. E’ la sua compagna, cantante molto in voga che tra l’altro appoggia apertamente Joao Goulart. E’ il presidente brasiliano, uno di quelli che in Sudamerica quando si inizia a associarli al comunismo si beccano il golpe. Che, guarda caso, arriva puntuale. I militari arrivano puntuali anche a casa di Elza: una perquisizione, niente di più, ma è il classico avvertimento che fa venire dubbi e pensieri. Come se non bastasse, Manè deve fare i conti anche con la giustizia: la macchina su cui viaggiava, probabilmente dopo avere bevuto qualche bicchiere di troppo, si è ribaltata. Nell’incidente è morta la madre di Elza e lui si è preso una condanna con la condizionale. Il caso vuole che proprio in quel periodo alla cantante offrano un contratto in Italia e all’istituto brasiliano del caffè serva un volto noto che faccia da testimonial, un Garrincha. Combinazioni perfette per cambiare aria e saltare l’oceano. Al Sistina quando canta Elza non c’è un posto vuoto, qualcuno però ci va anche per Manè. In fondo c’è un legame tra quel teatro e il pallone. Una volta il presidente della Roma, Renato Sacerdoti, con la sapiente introduzione scenica della radiocronaca del Macaranazo mondiale del 1950, aveva annunciato Alcides Ghiggia.

Avrebbe giocato nella Roma l’eroe dell’Uruguay e il giustiziere del Brasile, che per quella sconfitta aveva in parte pianto e in parte si era ammazzato. E sempre al Sistina, la Roma aveva toccato uno dei punti più bassi: una malinconica colletta dei tifosi, de core, una goccia nel mare per risanare buchi enormi di bilancio.

Chi vincerà il mondiale in Messico? A Garrincha non importa quando è sobrio, ancora meno con la cachapa di mezzo. Resta ancora una cosa che spazza via, magari anche solo per pochi istanti, le nubi. E’ il pallone. Bastano 5/6 ragazzi che giocano per strada o in un parco, o in un campo di periferia. La classica partita dove puoi trovare quello con la fedina penale lurida e al tempo stesso il maestro Pasolini, che si immerge spesso e volentieri in quel meraviglioso calcio sociale. Qui però c’è uno che ha vinto due mondiali. Riconoscerlo non è facile. L’aspetto è fisico è improbabile, poi però poi il puzzle si delinea: schegge di tv in bianco e nero, la memoria fotografica dei lettori del calcio illustrato. E soprattutto la maniera fantastica con cui quel tipo rispetta la palla e inventa traiettorie impensabili. Fino a quando arriva l’esclamazione con la voce impastata dall’emozione e arrotondata dal romanesco “Ao, ma è Garincia…”. Quei campi sterrati non somigliano al Maracana o al Rasundastadion di Stoccolma, quello della finale con la Svezia. E nemmeno all’Estadio Nacional di Santiago, quello della finale con la Cecoslovacchia. Contro i danubiani Mané nemmeno doveva giocare: nella semifinale contro il Cile gli erano saltati i nervi, per una volta a lui che di solito li faceva saltare agli altri. Espulso, squalificato, riammesso per giochi politici. Del resto, senza lui in campo un paese comunista avrebbe avuto parecchie chance in più di vincere un mondiale.

Stoccolma, Santiago o Torvaianica (sul litorale romano, dove ha stabilito il quartier generale con Elza), quando c’è una palla di mezzo per lui pari sono. E’ l’istinto della strada, non se ne va mai. Solo a chi lo ha poteva venire in mente di prendere in giro Robotti, un difensore della Fiorentina. Era successo prima della partenza per la Svezia, in amichevole. Mané aveva saltato tre, quattro giocatori viola: tra loro Robotti. Solo che invece di appoggiare la palla in rete, lo aveva aspettato ancora irridendolo e mandandolo quasi a sbattere contro il palo per poi entrare in porta con la palla. I senatori della squadra non l’avevano presa bene, non avevano capito che in quella giocata non c’era cattiveria. Lui non era cattivo. Una volta, quando aveva visto un avversario a terra, invece di puntare verso la porta avversaria (come spietatamente facevano gli attaccanti di un tempo), aveva preferito fermarsi. Forse il fair play verace, non ipocrita, era nato proprio in quel momento. “Ao’ ma lo sapete che ho giocato co Garincia”. L’internet in bianco e nero è il passaparola. La notizia si diffonde e tutti lo vogliono, un po’ per curiosità, un po’ per l’orgoglio di dire “io ci ho giocato”. Ufficialmente Manè non si è ancora ritirato dal calcio che conta, e quel briciolo di forma che gli rimasta cerca di conservarla allenandosi con la Lazio, che 4 anni dopo vincerà uno scudetto storico ma che ancora deve fare i conti con una serie A bassa e addirittura la B.

La finta è sempre quella, sempre incredibilmente imprevedibile. Quella gamba più corta, uno dei tanti difetti congeniti, è all’origine di quel dribbling unico. Ne fa uno, due, tre a Giuseppe Papadopulo. E’ un difensore laziale fiero, dai sapori di calcio antico, che non gradisce e glielo fa capire a modo suo… Tutti se lo contendono, un po’ tutti. Gioca in maniera un po’ annoiata nell’esclusività nel circolo dei Canottieri Lazio. Ritrova il calcio del popolo a Torvaianica. Macellai contro meccanici, partita nel solco di una tradizione che negli anni Settanta nella Capitale vedeva i bar contendersi i migliori giocatori dilettanti (e non solo) per un torneo che richiamava sempre un sacco di pubblico. Fino a quando arriva la telefonata di Dino Da Costa, quello che nei derby romani segnava sempre alla Lazio. Garrincha lo conosce bene. Ci ha giocato insieme in quel magico Botafogo: un trio d’attacco completato da un altro grande, Luis Vinicio, che a Napoli diventerà per tutti O’ Lione. Da Costa allena il Sacrofano, dove c’è un vulcano che si è calmato da 330mila anni ma dove la passione per il calcio va a mille. Squadra di dilettanti, esaltazione da professionisti. E ci sono centomila lire a partita che mica fanno schifo. Sembra la storia del Borgorosso quando il presidente fomentato Alberto Sordi ingaggia Omar Sivori. Solo che nel film il Cabezon è annoiato, soddisfatto della vita e sicuro anche a 40 anni di fare la differenza in un contesto del genere. Garrincha invece è spaesato, sempre in attesa che il pallone lo accenda. Il torneo vinto a Mignano Monte Lungo (provincia di Caserta) è il suo punto più alto di quella sua esperienza, poi piano piano l’oblio prenderà definitivamente il sopravvento.

Garrincha morirà senza aver tagliato il traguardo dei cinquanta anni, devastato da alcol e povertà. Solo, nonostante 14 figli. Senza Elza, dalla quale ha divorziato sei anni prima. Nei primi anni Settanta una selezione di giocatori amatoriali del Parco dei Daini di Villa Borghese a Roma, dove si gioca da oltre cento anni e che ancora adesso è teatro, la domenica mattina, di accanitissima partite, fu invitata a Sacrofano per una amichevole del giovedì. I giocatori di Da Costa snobbarono il test, andarono in difficoltà e il tecnico, infuriato, non fece finire l’incontro mandando tutti negli spogliatoi. Alcuni di quei giocatori del parco, ormai ampiamente sopra la settantina, amano rievocare l’evento. Alcuni affermano che in campo quel giorno c’era anche Garrincha, alcuni negano, altri non ricordano. Insomma, la verità non verrà mai appurata. E forse è giusto così.

Sul periodo di Manè a Roma è stato scritto un bel romanzo dal titolo ‘Garincia’, scritto da Jvan Sica (Edizioni Incontropiede)

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