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George Weah, l’intervista: “Scusa Milan, tiferò Juve per mio figlio e Platini”

L’ex n.9 rossonero vedrà a distanza suo figlio Timothy in maglia bianconera nella sfida di San Siro

TORINO – George Weah risponde dal Ghana, dove si trova per una delle sue missioni di uomo politico: dopo essere stato per sei anni presidente della Liberia, adesso è “solamente” senatore e leader di Cambiamento Democratico, partito di opposizione. In Italia torna ormai di rado e di certo non vi tornerà oggi per venire a vedere la “sua” partita, quella tra il Milan, il club più importante della sua vita, e la Juventus, la squadra dove gioca suo figlio Timothy “e per la quale ho sempre fatto il tifo”.

Il piccolo George Weah era uno juventino incallito?

“Assolutamente sì. Erano gli anni in cui Platini giocava nella Juve e tanti bambini africani stravedevano per lui, me compreso. Adoravo come tirava le punizioni, i rigori e noi piccoli che giocavamo per strada cercavamo di imitare il suo modo di calciare. Ma quando partiva dal suo piede la palla girava, noi invece non ci riuscivamo mai. Platini è stato un modello, una leggenda e io non ho mai smesso di essere juventino”.

Ha mai avuto la possibilità di giocare nella Juve?

“Sì, quando giocavo nel Monaco si era interessata a me, ma ero ancora molto giovane e Wenger, che era il mio allenatore, mi consigliò di restare in Francia ancora un po’ perché avevo bisogno di maturare. La Serie A, all’epoca, era un campionato di altissimo livello, forse il più difficile al mondo. E così andai al Psg”.

E dopo tre anni la prese il Milan.

“In rossonero ho vissuto cinque stagioni fantastiche. Da avversario lo guardavo, lo ammiravo, ricordo bene quella finale di Champions persa con l’Ajax. Nel Milan c’era ancora Van Basten, che poi mi fece l’onore di lasciarmi la sua maglia numero 9. L’Italia era la nazione di riferimento, tutti volevano venire da voi e fui io a scegliere, anche se sarei potuto andare altrove. Sognavo mi chiamasse la Juve, ma come avrei potuto dire di no al Milan, che in quegli anni era uno spettacolo? È andata così e non si può dire che mi sia andata male”.

È ancora in contatto con i vecchi compagni?

“Certo. L’altro giorno ho chiamato Sebastiano Rossi. Con Boban ci sentiamo spesso come anche con Maldini: è stato il mio ultimo capitano, mi ha sempre aiutato, gli devo tantissimo. E poi Marco Simone, il mio grande amico”.

Da che parte starà?

“Tiferò Juve. Perché è la mia squadra del cuore e perché ci gioca Timothy”.

Suo figlio ha realizzato il sogno che aveva lei da bambino?

“Si può dire così. Avevo parlato di Timo con Maldini, c’era la possibilità di farlo andare al Milan, ma non si è concretizzata. Quando mio figlio mi ha accennato della Juve, gli ho detto di non esitare neanche un momento. Ne abbiamo discusso con la mamma e il manager e tutti siamo stati d’accordo: non si poteva dire di no a un’opportunità che milioni di ragazzi sognano ma che soltanto in pochi hanno. Al di là del mio tifo, è la squadra giusta per lui”.

Nella Juventus, Timothy gioca assieme al figlio di un altro suo vecchio amico, Thuram.

“Ma certo, con Lilian siamo stati compagni di squadra al Monaco, lo chiamavo il mio piccolo fratello oppure Chou Chou: eravamo sempre insieme ed è bello che i nostri figli riannodino il legame che avevamo i loro padri. Ringrazio il Signore per questo”.

Lei però non riesce quasi mai a vederlo dal vivo, vero?

“Amo molto venire in Italia, siete il paese del calcio, è sempre bello rivedere i vecchi amici e avere l’opportunità di seguire Timothy dal vivo, ma purtroppo i miei impegni mi impediscono di farlo come e quanto vorrei. Quando torno mi mostrano simpatia persino gli interisti, mi sorridono, mi chiamano Giorgio e io gli dico sempre: voglio bene a tutti, belli e brutti. Sono venuto a gennaio, ho visto Juve-Empoli, ma erano quindici anni che mancavo. Sono poi tornato qualche settimana fa prima di andare a Parigi per il Pallone d’oro. Però guardo in tv tutte le partite della Juve: prima da tifoso, adesso per Timo. E alla fine ci sentiamo sempre per telefono”.

Lo rimprovera, si congratula?

“Lui è un ragazzo molto intelligente, non ha bisogno dei miei consigli. E poi io sono suo padre, è l’allenatore che deve dirgli come e quando sbaglia. Fin da quando era piccolo gli ho detto di giocare a modo suo, senza andare a guardare come giocava suo papà. Io mi limito a pregare per lui senza intromettermi, perché non voglio mettergli confusione in testa né pressione. L’unica cosa che gli ripeto sempre è di giocare per la squadra, che se anche entra in campo per un solo minuto deve dare il massimo e che non importa se ha fatto gol oppure no, purché i compagni siano contenti del suo lavoro. L’anno scorso era un po’ deluso, non aveva fatto bene e non era nel suo ruolo ideale, ma adesso è molto contento. È giovane, sbagliare gli fa bene”.

Com’erano i suoi Milan-Juve?

“Strani, perché giocavo contro la squadra per cui tifavo. Ma non mi sono mai tirato indietro e alla Juve ho fatto tanti gol (5 in 10 partite, ndr). Ricordo il primo, eravamo a San Siro e vincemmo 2-1 con una mia rete: ero contento ma anche un pochino triste. Di sicuro posso dire che Juve e Milan sono le squadre del mio cuore”.

E quindi che partita si aspetta di vedere?

“Vorrei che fosse una bella partita. Se vince la Juve sono contento, se vince il Milan non sono contento al cento per cento ma un po’ sì, perché il Milan ha fatto tantissimo per me”.

Non è riuscito proprio a liberarsi per questo weekend?

“No, a Monrovia ho tanto lavoro da fare. Sono entrato in politica per mettermi al servizio del mio paese, anche adesso che non sono più il presidente. Sono il leader di un partito importante e penso che in Liberia ci sia ancora bisogno della mia voce”.

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