Un giorno, nel cuore degli anni Settanta, Gianfranco Zigoni scoprì che Dio è un grande appassionato di calcio. E, evidentemente, era anche un suo grande tifoso: “Era un Verona-Vicenza, al Bentegodi. Io segno l’1-0, pareggia Vitali. A quel punto il pubblico inizia a gridare: ‘Zigo, Zigo’. Ho detto a un mio compagno: ‘Dammi la palla’. Faccio tre passi e dai trenta metri tiro di destro. Gol. Viene giù lo stadio. Me ne andai, dissi ‘basta così’. È stato il mio gol più bello. Ho pensato in quel momento a Dio. Ma se io col destro non riesco nemmeno a salire sul tram, come ho fatto? Dio è un grande dispensatore di gol: decide sempre lui dove va la palla, pensateci”. Il 25 novembre Gianfranco Zigoni, talento pigro e leggendario del nostro calcio, taglia il traguardo degli ottant’anni. A Oderzo, il suo paese natale in provincia di Treviso, con gli amici di sempre ci sarà una bicchierata, così la chiama lui.
E basta?
“Gli ottant’anni sono mica da festeggiare? Sono da mettersi a piangere. Una tristezza. Hai un piede nella fossa a ottant’anni. Festeggio con mio figlio Gianmarco, che ora gioca nel Taranto e viene su. Io sono uno schivo. Anche se non sembra”.
No, non sembra. Mai sembrato. Avete presente la scena de L’Uomo in più di Paolo Sorrentino, quando Tony Pisapia racconta la sua vita in tv senza rispondere ad alcuna domanda, lanciandosi in un lungo monologo? Con Zigoni è sempre stato così.
“Vivo nella grande Opitergium, città romana. Sono andato via a 15 anni e tornato a 40. Sono nato nel Bronx, così lo chiamavo io il quartiere Marconi. A quei tempi c’erano le case popolari, era la prima periferia, attaccata al centro, ma lo stesso lontanissima. Famiglie operaie, tanti bambini, si giocava dalla mattina alla sera. Oggi, dove giocavamo allora, mi hanno dedicato un murale, con i colori gialloblù del Verona. Là ci troviamo tutte le sere a bere un fiasco di vino, a mangiare un salame, c’è il club dei miei amici che si è affiancato al club di Dossobuono del Verona. Sono venuti Boban, Chiappucci, facciamo tutto noi, c’è anche la cucina. Meglio che andare in giro per bar”.
Le sono rimasti tanti amici?
“L’altra sera c’era un mio amico calabrese che ha giocato con me nell’Opitergina. Gli ho fatto vedere la foto della squadra: se ne sono andati tutti tranne me e un altro compagno. Mi viene una tristezza. Avevo 18 anni in quella foto. No, non tristezza, ma nostalgia”.
Che rapporto ha con la morte?
“Non ho paura, ma al contempo un senso alla vita non riesco ancora a trovarlo. Non siamo nulla. Anche la morte di Totò Schillaci ad esempio mi ha ricordato questo. Tutto si dimentica in un attimo. Mi dispiacerà lasciare i miei figli e i miei cinque nipotini, 4 maschi e una femmina. Tommaso gioca, fa la prima media, ha undici anni, è bravetto. Gioca perché si diverte con gli amici. Mi somiglia: com’ero io. E io non ero innamorato del calcio”.
Come ha iniziato?
“Andavamo tutti all’oratorio del paese. Un prete appassionato di calcio aveva fondato una squadra, la Vit: io avevo 12 anni, giocavo con quelli di 16. Ero restìo agli allenamenti. Io vivevo vicino alla campagna, mi piaceva andare per i campi, amavo inseguire gli uccelli, rubare la frutta. Ero un po’ interista. Il mio idolo era Lennart Skoglund. Erano i primi anni gloriosi per l’Inter: Nyers, ‘Veleno’ Lorenzi. Armano, Massa, Skoglund. Sono diventato interista perché ho sentito per radio, mentre giocavamo a pallone nel Bronx, 6-0 per l’Inter contro la Juve, due gol di Skoglund. L’ho visto, poi, su un giornale. Mi ha impressionato: uno svedese era qualcosa di esotico per quei tempi”.
Lei si chiama all’anagrafe Gianfranco Cesare Battista.
“Uno dei miei fratelli è morto da bambino, era nato il 25 dicembre del 1940, si chiamava Gianfranco Natale. E dopo 4 anni sono nato io. Battista era mio zio. Cesare è più complicato da spiegare. Il figlio di una signora nostra vicina di casa era morto in guerra a vent’anni, e si chiamava Cesare. Da bambino tremavo perché vivevamo vicino alla ferrovia, sopra il nostro palazzo passava Pippo e bombardava: era un aereo americano, tutti dicevano ‘arriva Pippo’. La linea era quella tra Portogruaro e Treviso”.
Che quartiere era il suo?
“Era circondato da campagne, c’erano contadini ma anche fabbriche, commercianti. E un oleificio, dove ha lavorato anche mio padre fino alla morte. Intorno al nostro quartiere si coltivano le viti per il vino Raboso. Mia madre stava a casa con noi figli. Nove figli, quasi una squadra di calcio”.
Che vita è stata, da ragazzo?
“Serena. Pochi mangiavano al tempo, a noi invece non è mai mancato niente. I miei zii avevano tante campagne, mio nonno, che viveva a San Polo di Piave, era abbastanza facoltoso, ci portava galline e salame. Noi abbiamo avuto culo. Dagli anni Sessanta è arrivato il benessere. Eravamo birichini, ma al massimo rubavamo uva e mele per i campi”.
La sua prima squadra?
“Dopo il Patronato Turroni, la Vit del prete, a Oderzo, a Pordenone ci sono arrivato per destino. Un certo Bepi Rocco di Motta di Livenza aveva giocato nell’Opitergina: la Juventus gli aveva dato l’incarico di guardare in giro dalle nostre parti. Il Pordenone era gemellato con la Juve. Questo Rocco, venuto nel Bronx, mi ha visto mentre giocavo con una palla di pezza, io avevo 12 anni. Mi disse ‘ragazzino vuoi venire a Pordenone a fare un provino per la Juve?’. Io non sapevo nemmeno dove fosse Pordenone, la strada era tutta sassi in pullman, scomodissima, non avevo mai fatto un viaggio così lungo. Non volevo assolutamente andarci”.
Non fu facile convincerla.
“Rocco e il prete andarono da mia madre. A me non interessava. Studiavo, facevo l’avviamento professionale agrario. Mia madre diede ascolto al prete, o meglio all’autorità che un prete ha sempre in paese. Lo feci per lei: ‘Dai Gianfranco, fai il bravo’ mi diceva. Io non volevo andare alla Juve perché sapevo che se fossi andato lì, non sarei mai più tornato indietro. Ero un mostro, i miei amici lo sapevano. Ero forte. Più forte di Pelé e di Maradona da bambini. A Pordenone, Virginio Rosetta dopo un quarto d’ora mi individuò. Mi disse ‘vieni fuori’. Oggi si fanno carte false per andare alla Juve. Non ho mai pensato ai soldi. Io sono come George Best. Oggi i figli litigano per l’eredità, i miei sicuramente non lo faranno”.
Quali erano le sue vere passioni?
“Nella mia vita non ho mai finito qualcosa: avrei potuto migliorarmi nel calcio ma ero pigro, non ne avevo voglia. Ho studiato lingue a Torino, ero innamorato dell’inglese, ma mi sono rotto le scatole presto. Mi piaceva suonare la chitarra, niente da fare. Ho provato col pianoforte, un portiere dell’Opitergina mi disse ‘te lo insegno io’. Oggi lui va sulle navi a suonare, io niente, dopo un mese basta”.
Uno come lei alla Juventus. Quanto è durata?
“Non poco: otto anni. Ho esordito nel 1961: avrei potuto farlo un anno prima, a 16 anni, ma ero squalificato per aver mandato al quel paese l’arbitro in una partita di Allievi contro il Milan. Bastava pareggiare per vincere il campionato: abbiamo fatto 1-1, gol mio. Ma ero talmente incazzato con un avversario che mi marcava e ho mandato a quel paese l’arbitro. L’allenatore, Ercole Rabitti, che mi ha anche allenato a Pordenone e nell’ultimo anno alla Juve, mi mandò a casa. Mi disse ‘basta, qua non tornerai mai più’. Sono stato a casa più di un mese. Poi mi hanno richiamato e ho cominciato la carriera vera”.
Cosa è stata Torino per lei?
“Prima di tutto, è stata la meta del mio primo viaggio con mio padre da Oderzo, in treno, un treno che non arrivava mai. A Torino non ero felice. Abitavamo in un palazzo in centro di un presunto Conte di Catania, una mensa e una donna che stirava. Si dormiva due per camera. Tutto molto schematico: ti alzavi presto, andavi all’allenamento, tornavi a casa, al massimo un cinema. Il primo anno ci davano 15mila lire al mese. Il cinema costava 500 lire, per dire. Non ho avuto questa grande passione per la Juve. Ho esordito al posto di Sivori, a 17 anni. L’allenatore era Parola: mi diceva ‘ragazzino, domani giochi tu’. Domani non arrivava mai, però. Ho segnato alla Spal, l’ultima del campionato, ma solo perché Omar volò in Argentina per la morte della madre. Giocammo insieme in amichevole contro il Real Madrid. Se Maradona è stato mandato da Dio, Sivori non era da meno. Io ho giocato contro i più grandi, da Pelé a Eusebio, ma Sivori è stato immenso e quando voleva vinceva da solo”.
Cosa facevate la sera, dopo le partite?
“Uscivo spesso con Del Sol, grande centrocampista, una locomotiva umana. E anche con Cinesinho, ma con Sivori no, mai. Ho avuto tanti anni Heriberto Herrera come allenatore, più sabaudo dei sabaudi: la domenica, dopo la partita, ci portava in ritiro. Qualche volta si scappava. Io avevo una sola trasgressione, la pistola. Ma solo perché avevo anche il porto d’armi. Sparavo ai lampioni, tutto qua”.
La partita in cui si rivelò il vero Zigo?
“Contro il Real Madrid, in amichevole, ero io il centravanti. Perdemmo 3-1, doppietta di Puskas, gol di Di Stefano e gol mio. In quella partita Santamaria del Real mi paragonò a Pelé”.
Dopo la Juve, andò alla Roma.
“Due anni meravigliosi. Ciò che mi interessava era stare bene. Quando mi hanno venduto a Verona ho pianto. Ma sono andato in un altro paradiso. L’Hellas per me è tutto. La squadra, la città. La squadra della mia vita: ho giocato sei anni. Gli anni più belli da calciatore e da uomo”.
Il rapporto col calcio non è però mai cambiato.
“Non mi allenavo, ero sempre stanco, facevo tardi la sera. Dopo dieci minuti in campo non ce la facevo più. Ma perché il calcio era il mio ultimo pensiero. Io avrei voluto fare il falegname. Mi piace toccare il legno, piantare il chiodo. Mi ero innamorato di quel mestiere. E amo da morire la favola di Pinocchio”.
Zigo diventa Zigo però un giorno a Verona, indossando in panchina una pelliccia di lupo. Come andò?
“La pelliccia me l’aveva regalata una tifosa. Ce l’avevo perché a Verona d’inverno fa freddo e non avevamo quei giacconi che usano oggi. Quel giorno andai al campo con la pelliccia e un cappello da cowboy che avevo preso a New York in una tournée con la Juve. Era la partita contro la Fiorentina. Il nostro allenatore Ferruccio Valcareggi mi dice ‘Zigo, oggi non giochi. C’è una squadra che vuole vederti, se non giochi bene poi non ti prende. Domenica abbiamo vinto anche senza di te’. E io: ‘Mister, sta scherzando? Il più grande calciatore del mondo non gioca?’. Lui mi guarda: ‘Cosa vuoi fare?’. Quando sono entrato ho sentito un boato. Avevo la pelliccia, ho puntato il dito verso la curva e ho detto a tutti ‘calmi’. Perdevamo 2-0, poi sono entrato, ho segnato, ho preso un palo. ‘Visto mister? Non avremmo perso’. Valcareggi guardò il presidente e gli disse: ‘Si arrangi lei con lui’. Sono queste le cose belle, non i gol”.
La politica quanto contava per lei, allora?
“Contava zero per me. Io studiavo, leggevo Kant, Socrate, Aristotele. Ho sempre letto molto. Ora ad esempio sto leggendo l’Antologia del Corano. Sono sempre stato un anarchico. In quegli anni la politica era dappertutto: le stragi, il terrorismo, ma i calciatori restavano fuori. Però mi sarebbe piaciuto conoscere Mao. Ma non perché fossi comunista. Mi affascinava l’uomo. Poi il mio idolo è stato Ernesto Che Guevara. Anche se preferisco Gesù a lui. Io credo in Dio e non nell’uomo. Come faccio a credere nell’uomo? Non vado a messa, ma seguo la legge di Dio. Cerco di comportarmi bene, non giudico nessuno, voglio bene a tutti”.
Cosa ascoltava?
“Fabrizio De André, ho tutti i suoi cd in macchina, Bob Dylan, Leonard Cohen. Ho conosciuto Fabrizio a Genova, ero il suo idolo e lui era grande tifoso del Genoa, dove ho giocato in prestito dalla Juve dal 1964 al 1966”.
Quanto hanno contato le donne per lei?
“Moltissimo. Ma non è il numero che importa, una donna non è una caramella”.
E il soldi?
“Se avessi avuto un procuratore come i ragazzi di oggi avrei guadagnato molto di più. Ma non sarebbe cambiato niente, al massimo aiuterei qualcuno che ne ha bisogno. E poi ho sempre pensato che fare un regalo con sacrificio è più bello. Vivo dignitosamente. Ho un appartamentino a Piancavallo, in montagna, non lontano da dove purtroppo è stato trovato il corpo della povera Giulia Cecchettin. Ho visto i fiori sulla strada”.
Il calcio di oggi le piace?
“Per nulla. Se devo scegliere tra il calcio e una cena tra amici, scelgo la cena. I simulatori mi fanno schifo. Guardo solo le partite del Taranto, la squadra di mio figlio di Gianmarco”.
A Oderzo c’è una squadra con il suo nome, adesso.
“Una squadra di Seconda categoria, si chiama Zigoni Oderzo: siamo a metà classifica, c’è anche mio nipote. Qualche volta vado a vedere. È una soddisfazione: mi hanno detto che sono l’unico vivente che ha una squadra di calcio con il suo nome. Siamo gemellati con il Bologna. Il presidente me l’ha proprio chiesto. Su tutte le maglie è scritto Zigoni, ma c’è uno Zigoni vero, mio nipote”.
Ha tanti cimeli?
“Le mie foto, le coppe, è tutto nel mio club a Oderzo. Ho il premio Emilio De Martino e la coppa che danno a chi vince il campionato. Ho due, tre maglie della Nazionale. Ho scambiato solo una maglia, con Adolfo del Benfica, che ha voluto la mia della Juve del 1968”.
La cosa più bella che le è capitata ultimamente?
“Quando avevo 22 anni, Marco, un mio tifoso, venne a trovarmi a Villar Perosa: gli regalai la maglia della Juve. 53 anni dopo un mio amico l’ha rintracciato. Ci siamo visti. E mi ha portato la maglia che gli avevo regalato allora, la casacca della Juve, dura, pesantissima. Siamo stati a cena nel mio club. Mi fa: ‘Mi hanno offerto 5mila euro. E io non gliel’ho data. Ora, con la tua firma, vale 50mila euro, ma io non la venderò mai’. Le cose belle della vita sono queste. Cosa m’importa dei gol fatti, di quelli non fatti. E in quei momenti io penso che Dio c’è. Beh, anche Maradona era mandato da Dio, ecco. Dio è un grande tifoso di calcio”.